La partita è complicata al punto che anche chi dovrà giocarla non sa - o fa finta di non sapere - termini e regole del confronto. Tutti o quasi, per dire, sostengono che si inizierà a ragionare davvero sul nuovo presidente della Repubblica solo a febbraio. In verità, stando al dettato costituzionale - articolo 85 - le squadre scenderanno in campo già la prima settimana di gennaio, prima dell'Epifania. Quando il presidente della Camera Roberto Fico - «trenta giorni prima che scada il termine» del mandato di Sergio Mattarella (che ha giurato il 3 febbraio 2015) - dovrà convocare «in seduta comune il Parlamento e i delegati regionali» per «eleggere il nuovo presidente della Repubblica».
Il precampionato, inutile dirlo, è già iniziato. E certamente entrerà nel vivo dopo le elezioni amministrative del 3 e 4 ottobre. Con uno scenario che, per la prima volta, vede il centrodestra in pole position: se davvero si presentasse compatto, infatti, pur non essendo autonomo potrebbe comunque dire seriamente la sua nella nomina del nuovo capo dello Stato. Al netto, ovviamente, delle scelte di Mattarella e Mario Draghi. Se il primo fosse disposto al bis (circostanza che ha sempre negato) o il secondo fosse tentato dall'avventura al Colle, la partita per il Quirinale sarebbe chiusa ancora prima di iniziare.
Così non fosse, entrerebbero in campo i cosiddetti outsider. Il collegio elettorale sarà formato da 1009 grandi elettori: 630 deputati, 321 senatori (315 più i 6 a vita) e 58 delegati regionali (3 per Regioni, tranne la Valle d'Aosta che ne ha solo 1). Per eleggere il nuovo capo dello Stato serve la maggioranza dei due terzi (673 voti) nei primi tre scrutini, mentre dal quarto in poi basterà la maggioranza assoluta (505 preferenze). Un numero non proprio a portata di mano, ma neanche inarrivabile. Soprattutto tenendo conto del fatto che il M5s, il partito più rappresentato in Parlamento con ben 234 grandi elettori (160 deputati e 74 senatori), si sta muovendo ormai da mesi in ordine sparso. E senza dimenticare che il Gruppo misto vale 112 voti (65 deputati e 47 senatori).
Al netto degli inevitabili franchi tiratori (da una parte e dall'altra), se si presentasse all'appuntamento saldamente unito, il centrodestra potrebbe contare sulla carta ben 449 voti: 196 della Lega (132 deputati più 64 senatori), 127 di Forza Italia (77 più 50), 58 di Fratelli d'Italia (37 più 21), circa 30 dei satelliti del centrodestra (tra Coraggio Italia e Gruppo misto) e 38 dei 58 delegati regionali. Un discreto pacchetto di mischia rispetto all'asticella dei 505 sufficienti dalla quarta votazione in poi. Se poi si concretizzasse l'asse di questi ultimi mesi tra Matteo Salvini e Matteo Renzi - che anche questa estate hanno avuto occasione di incontrarsi di persona in Toscana a casa di Denis Verdini - ci sarebbero da sommare i 45 grandi elettori di Italia viva (28 deputati più 17 senatori). Per un totale di 494 voti presidenziali. A un passo, insomma, dalla maggioranza assoluta.
Il punto, però, è che all'appuntamento di gennaio il centrodestra rischia di presentarsi per nulla compatto. Per non parlare dei voti che solitamente si perdono per strada in partite come queste (ne sa qualcosa Romano Prodi che ancora non ha dimenticato i celebri 101). Due circostanze che lasciano supporre che alla fine si arriverà a un'intesa con il centrosinistra, quantomeno con il Pd. Peraltro, i rapporti tra Salvini e Giorgia Meloni e l'accelerazione sulla federazione Lega-Forza Italia - confermata ieri sera nella cena a Villa Certosa tra Silvio Berlusconi e il leader della Lega - suscitano più di una perplessità dentro FdI. Dove il timore, giusto o sbagliato che sia, è che Salvini stia ragionando su una sorta di nuovo «schema Rai». Insomma, se dopo la quarta votazione l'obiettivo è puntare sul nome di Berlusconi, Meloni è pronta a sostenerlo. E - dicono diversi big del centrodestra, FdI compresa - «con i voti del M5s che si muoverà in ordine sparso la partita potrebbe anche andare a buon fine». Se invece l'idea è quella di arrivare a un presidente della Repubblica con il sostegno del Pd - scenario che si porterebbe dietro una riforma elettorale in senso proporzionale, con sbarramento al 4-5% - la leader di FdI è pronta a fare le barricate. «Piuttosto che Pier Ferdinando Casini, votiamo Veltroni», si è lasciata sfuggire con i suoi. Una provocazione, ma fino a un certo punto. Perché in caso di braccio di ferro all'interno del centrodestra, FdI è pronta a dare battaglia.
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