Giallo sul cadavere del reporter ucraino: "Morte casuale", "Colpito a bruciapelo"

Il giornalista, 40 anni, lascia la moglie e 4 figli piccoli. Il suo ultimo post: "Ogni fotografo vuole scattare la foto che fermerà la guerra"

Giallo sul cadavere del reporter ucraino: "Morte casuale", "Colpito a bruciapelo"

L'ultimo post risaliva al 13 marzo. Da allora più nulla. Ieri il cadavere è stato trovato fra le macerie. Lì c'era il corpo del fotoreporter Maks Levin, 40 anni, ucraino (ma la nazionalità non è importante, perché il martirio di Maks rappresenta ogni giornalista del mondo). Con Maks salgono a 7 i cronisti caduti dall'inizio del conflitto. Speriamo che la Spoon River di quanti hanno sacrificato la vita per informarci, finisca qui.

Sulle cause della morte di Levin, le versioni divergono. C'è chi dice che è rimasto «vittima casuale dei bombardamenti»; altri sostengono che «è stato ucciso con due colpi di arma da fuoco sparati a bruciapelo dai soldati russi».

La procura penale ucraina ha aperto un procedimento per omicidio e indaga sulla scomparsa di Oleksiy Chernyshov, l'uomo che scortava Maks durante i suoi servizi giornalistici.

A comunicare il ritrovamento del cadavere di Levin è stato su Telegram il consigliere presidenziale ucraino, Andriy Yermak. Levin che lavorava per la testata indipendente LB.ua era conosciuto all'estero e collaborava con Reuters, Bbc e Ap; in passato aveva partecipato a diversi progetti umanitari per organizzazioni internazionali come Oms, Unicef e Osce. L'agenzia Reuters lo ricorda così: «Maks ci ha fornito foto e video avvincenti dall'Ucraina dal 2013. La sua morte è un'enorme perdita per il mondo del giornalismo. I nostri pensieri sono con la sua famiglia». La giornalista ucraina Olga Tokariuk ha twittato: «Levin era uno dei migliori fotoreporter ucraini, aveva quattro figli piccoli. Riposa in pace».

I suoi quattro bimbi - da oggi quattro orfani - possono essere orgogliosi di avere un padre così. Maks era uno bravo, davvero. Pure lui aveva la scritta PRESS sul giubbotto antiproiettile e dall'elmetto militare. Ma, a differenza di vari suoi colleghi (o presunti tali), non ne faceva uno sfoggio compiaciuto ai limiti del grottesco. Tanto ormai la qualifica di «inviato di guerra» non si nega più a nessuno. Levin era su un altro piano: apparteneva a quella categoria di reporter che con i loro servizi (l'opposto di quelli preconfezionati a favore di telecamera) fanno rimbombare l'eco delle granate fin nei tinelli di casa dove noi, «combattenti» da salotto, ci esibiamo nel Risiko delle opinioni trasformandoci in strateghi militari alla von Clausewitz. Nei talk show o nei cosiddetti «programmi di approfondimento» avviene lo stesso, con in più l'aggravante dell'inviato in versione contractor esibito più che altro per dimostrare che non si vive solo di bla bla e litigi da studio, ma anche di «servizi sul campo». Un'ipocrisia da infotainment belligerante cui Maks non aveva mai ceduto, rifiutandosi di fare la foglia di fico per telegiornali a caccia di effetti speciali e pseudo scoop.

Della stessa pasta erano gli altri colleghi di Levin, caduti proprio quando le notizie di cui erano testimoni stavano diventano pagine di Storia. Inevitabile che pure i mass media piangano le loro vittime, soprattutto in tempi di guerra. Ma ancora più grande è il dolore dei familiari. Come sanno bene i parenti dei giornalisti Oksana Baulina; Brent Renaud; Pierre Zakrzewski; Oleksandra Kuvshynova; Viktor Dedov; Yevheniy Sakun, tutti morti descrivendo le fasi cruente dell'invasione russa in Ucraina. Il suo ultimo reportage Levin lo aveva realizzato dal distretto di Vyshhorod per documentare ciò che restava del villaggio di Moshchub, uno dei tanti polverizzati dai missili russi.

Maks è morto come un autentico inviato di guerra sogna di morire: sul campo di

battaglia. In una guerra che Levin stava, a modo suo, combattendo per sé, per il suo popolo, ma anche per tutti noi.

La sua ultima frase sui social era stata: «Ogni fotografo ucraino vuole scattare la foto che fermerà la guerra».

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