Questo è l'album degli amori perduti, la ricerca di una famiglia elettorale, troppo larga per essere reale, dai confini sempre un po' indefiniti e con l'eterna nostalgia di quell'Ulivo tradito e tormentato. È la scommessa irrisolta del Pd ogni volta che si va al voto, quando torna la preoccupazione e il fastidio di dover chiedere agli italiani uno straccio di consenso, per il resto del tempo ci si accomoda al governo grazie a leggi disegnate per favorire governi tecnici. Ecco le fotografie degli alleati che passano e vanno via, l'ultimo così in fretta da non trovare neppure il tempo per litigare.
È il settembre del 2011. Napolitano ha già complottato. Mario Monti si aggira intorno a Palazzo Chigi, lo spread si manifesta come una maledizione sulla scena politica. A Vasto, davanti alle mura del Palazzo d'Avalos, Pierluigi Bersani, Nichi Vendola e Antonio Di Pietro si fanno fotografare per certificare la nascita del patto contro Berlusconi. Tutti e tre guardano il mare, ma ci vedono un orizzonte diverso. Non ci metteranno molto a litigare. È il solito schema e la stessa vocazione nel riconoscersi solo nell'occhio del nemico. Bersani allora faceva il Pd, Vendola narrava progetti con il marchio Sel, l'equivalente del Leu (ma perché scelgono sempre sigle del cavolo?) e Di Pietro era di fatto un grillino senza Rousseau. Quell'immagine durò meno di una stagione. Il Pd scelse Monti come nuovo profeta. Vendola e Di Pietro sono svaporati, ognuno in fondo perso dentro i fatti suoi. Bersani un anno dopo dirà che a quella foto mancava il sonoro.
Il Pd con le alleanze è come Willy il Coyote con Beep Beep. Si sta lì a escogitare piani meticolosi e maniacali ma senza risultati. La preda sfugge. Il divertimento però è che non si arrendono mai. È così che dopo Vasto arriva un'altra foto e questa volta cercano di metterci perfino un po' di magia. È l'ottobre del 2019 e Narni ha ispirato le cronache di C. S. Lewis. Qui però non ci sono leoni e la favola è senza fantasia. Sono le dieci e trenta del mattino e le elezioni in Umbria sono ancora un punto sfocato all'orizzonte. Sembrano quattro amici al cinema, appena scappati da un pranzo di lavoro. Tutti vestiti in blu, con cravatte che vanno dal viola al grigio maculato. Quello con la faccia pacioccosa non sa ancora cosa gli stia cadendo sulla testa. È Nicola Zingaretti e sorride con incauto ottimismo. Il ministro Francesco Speranza, distaccamento Leu della sinistra, ha la faccia da prima comunione. Luigi Di Maio e Giuseppe Conte, affiancati, sorridono con troppa finzione. Tutti insieme dovrebbero essere il ritratto della maggioranza di governo, qualcosa di simile ai volti pietrificati del monte Rushmore, solo che qualcosa non funziona. Non è paura. È fastidio. È evidente che ognuno sta pensando a una buona ragione per non essere lì. Lo scopriranno con il tempo che quello che fa di tutto per mostrarsi affidabile non è un uomo a cui voltare le spalle. Zingaretti ha costruito su Conte la sua idea di sinistra, legittimando questo avvocato spuntato dal nulla grillino come un predestinato. Conte, maestro nel galleggiare, si è messo in coda nella maggioranza Draghi e si è rincantucciato con il broncio fino a quando non ha trovato lo spazio per far crollare tutto. Enrico Letta su di lui voleva costruire il «campo largo», poi si è accontentato di Luigino Di Maio
Enrico, che porta il nome di Berlinguer, avrebbe dovuto sfuggire la maledizione degli ex Pci. La sua storia, in teoria, non è la stessa di Bersani e Zingaretti. È di quella schiatta Pd di tradizione democristiana. Dei tre però appare il più ideologico e ora incarna la sinistra che fatica a guardare al «centro». Ci ha provato con Carlo Calenda. È la terza foto e è già sbiadita.
C'è Letta in mezzo, alla sua destra ci sono Benedetto Della Vedova per «+Europa» e Simona Malpezzi, sottosegretaria Pd nei governi Conte bis e Draghi. A sinistra il buon Calenda e una Debora Serracchiani giubilante.È il ritratto di un fallimento.
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