Politica

Il giorno del ciclone Donald Toni bassi ma travolge tutti

I candidati spengono le polemiche, ma i cittadini sono divisi tra chi gioisce, chi si rivolta e chi progetta la fuga

G ioia e disperazione, sorpresa e sgomento. Si riassume così una delle nottate più sconvolgenti della storia politica americana, che ha fatto tremare il mondo dall'Asia all'Europa, e ha consacrato Donald Trump 45esimo presidente degli Stati Uniti. Il tycoon ha travolto come una valanga la favorita Hillary Clinton, ha ribaltato i sondaggi e ha compiuto il miracolo, strappandole non solo quasi tutti gli stati chiave, ma anche alcuni feudi democratici dove Barack Obama aveva vinto agevolmente quattro anni fa. L'ex first lady ha conquistato, seppur di poco, la maggioranza del voto popolare, ma ciò che conta negli Usa è il numero di grandi elettori Stato per Stato, e lui ha stracciato l'avversaria superando la fatidica soglia dei 270 necessari per aggiudicarsi la Casa Bianca.

Che sia la notte di Donald Trump lo si capisce subito: il suo trionfo inizia poco dopo le 19 locali, alla chiusura del secondo blocco di seggi, con la vittoria di un paio di stati tradizionalmente repubblicani, Indiana e Kentucky, prosegue con il vantaggio accumulato negli «swing states» della Rust Belt, e si consolida, tra l'ovazione dei sostenitori, mettendo a segno un successo dopo l'altro. Nel giro di qualche ora incassa Ohio, Florida, North Carolina, Texas, Georgia, Iowa: la sua marcia è inarrestabile, fino al colpo del ko, arrivato dopo le due di notte ora di New York, quando si aggiudica Wisconsin e Pennsylvania, raggiungendo quota 289 grandi elettori contro i 218 della rivale. Ad ogni Stato che si colora di rosso esplode la gioia all'Hotel Hilton di Midtown, dove si sono radunati i fan del miliardario newyorkese, mentre al Javits Center, dove il popolo di Hillary era convinto di far festa, cala il gelo, e la tranquillità di una vittoria quasi annunciata lascia spazio ad incredulità e disperazione. I sondaggisti si sono sbagliati, l'America vuole davvero una rivoluzione, e la «maggioranza silenziosa» ha scelto lui per guidarla. Alla Trump Tower lo stesso candidato Gop prende coscienza con il passare dei minuti di una vittoria in cui forse nemmeno lui credeva fino in fondo, che ha ottenuto contro tutto e contro tutti. Soprattutto contro una parte consistente del suo partito, che nella migliore delle ipotesi gli ha concesso il sostegno turandosi il naso, ma di fatto lo ha lasciato solo, circondato unicamente dalla famiglia e dai fedelissimi.

Al Peninsula Hotel, dove l'ex first lady è in attesa dei risultati con il marito Bill, la figlia Chelsea, e i più stretti collaboratori, si sgretola il suo sogno di diventare la prima donna presidente. Una sconfitta così cocente che la Clinton decide di non presentarsi neppure nell'avveniristico centro congressi nel West Side di Manhattan. Sul palco al suo posto sale il manager della campagna, John Podesta, e invita il pubblico ad andare a casa: «È stata una lunga notte, possiamo aspettare ancora un po' per garantire che tutti i voti vengano contati», dice. Tra la gente in lacrime si fa strada l'ipotesi di un riconteggio, come accadde nel 2000 tra George W. Bush e Al Gore. La Clinton invece si rende conto ben presto che la sconfitta è netta, e intorno alle tre del mattino chiama Trump per concedere la vittoria. Le prime parole del presidente eletto sono proprio per lei, che la ringrazia per il lavoro svolto per il Paese. Trump appare per la prima volta presidenziale, e circondato dal clan al gran completo, con i figli e la moglie Melania in prima fila, sfodera un tono insolitamente conciliante. Assicura che sarà il presidente di tutti ed evita accuratamente di menzionare uno dei suoi cavalli di battaglia, il muro anti-clandestini al confine con il Messico.

La sua vittoria in ogni caso fa paura, tanto che in Canada va in tilt il sito dell'ufficio immigrazione, pare per un traffico eccessivo da parte dei cittadini statunitensi. E in diverse città degli Usa vanno in scena manifestazioni di protesta contro il tycoon. I dimostranti si riuniscono in California, a Oakland, Los Angeles, Berkeley e San Francisco. Ma anche a Portland, in Oregon, in Pennsylvania e alla Columbia University di New York. Intanto, l'ex segretario di Stato attende la mattina successiva alla disfatta per apparire in pubblico e ammettere di persona la sconfitta. La Clinton, parlando da un hotel di Manhattan con accanto Bill e Chelsea, è accolta da un lungo applauso del suo staff. È visibilmente emozionata, a stento trattiene le lacrime, e chiede persino scusa per la mancata vittoria, poi si impegna a lavorare con Trump per il bene del Paese. Poco dopo, anche il Commander in Chief uscente Barack Obama parla dalla Casa Bianca, ammettendo che bisogna andare avanti e assicurando una transizione di potere pacifica.

Ad attendere The Donald, invece, sarà un Congresso «amico»: dalle urne è uscita anche una schiacciante vittoria del Grand Old Party, che mantiene il controllo sia della Camera dei Rappresentanti sia del Senato.

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