Alle aziende serve un sistema fiscale che non sia nemico, una burocrazia che non renda impossibile investire e una giustizia che funzioni. Possibilmente senza rinunciare alla prescrizione dei reati. Ma serve anche uno Stato stabile e affidabile, che non significa necessariamente avere un governo forte e longevo. Giulio Sapelli, economista e storico dell'economia spiega il male tutto italiano che porta tante aziende a lasciare o non investire.
Dipende da tasse, inefficienze e burocrazia?
«Non solo. Il mio amico Sangalli (presidente di Confcommercio, ndr) lo ricorda sempre. C'è un restringimento del mercato interno che colpisce i consumi. Colpa di un modello di sviluppo fondato sulle esportazioni, su bassi salari e bassi profitti, che ora mostra la corda».
Quindi dietro i mancati investimenti di gruppi come Ikea ci sono anche i consumi interni?
«Sarebbe strano se grandi gruppi non facessero previsioni. Visto il picco negativo dell'economia italiana, facile che se ne vadano o non implementino investimenti che avevano programmato in tempi migliori. Bassi salari e deflazione colpiscono i margini delle imprese e questa è una condizione più che strutturale».
Le chiusure domenicali influenzano?
«Io credo l'unico attore interessato alle chiusure dovrebbe essere la Chiesa. Poi c'è un problema sindacale posto giustamente, non si può chiedere alla gente di lavorare domenica senza pagare gli straordinari».
La burocrazia è un ulteriore carico che chi investe in Italia deve subire...
«È infernale. Per la Regione Lombardia con Roberto Marini avevamo dei giovani assunti per assistere le imprese, per guidarle nei meandri della burocrazia. Siamo ridotti così. Una misura di cosa significhi investire in Italia la dà quello che raccontava il compianto Giorgio Squinzi, al quale servirono tre anni per aprire un capannone. Se un grande imprenditore specchiato e onestissimo deve subire questo, facile immaginare cosa possa succedere alle piccole imprese. Grandi problemi»
Ad esempio sulla giustizia?
«Alla lunga durata dei processi ora vogliono aggiungere l'eliminazione della prescrizione. Non riesco a immaginare chi possa investire in un paese in cui un reato non si prescrive dopo il primo grado di giudizio».
L'Itala resta un paese impossibile per chi vuole fare impresa?
«Mantenere in vita un'azienda è un miracolo. C'è un'alta mortalità delle aziende, ma continuano a nascerne di nuove. Quindi l'Italia non è affatto morta, nonostante tasse come l'Irap. Nessun paese tassa le assunzioni, semmai si incentivano».
Difficile diminuire le tasse in questa situazione...
«In tempi di crisi le istituzioni internazionali ci chiedono di diminuire il debito e quindi aumentare le tasse. Una follia. Anche una persona semplice capisce che in un periodo di crisi è necessario espandere l'economia».
Tra gli elementi che fanno fuggire le grandi imprese dall'Italia c'è anche il timore di cambiamenti nelle politiche. Hanno ragione?
«Sì ma bisogna mettere in chiaro che non si tratta di stabilità dei governi. Gli economisti che contano il numero dei governi per misurare l'affidabilità di uno Stato mi fanno ridere. Il periodo d'oro per l'economia italiana furono gli anni Cinquanta e poi anche i Sessanta a e i Settanta.
Un periodo in cui nel corso di un anno capitava di contare più di un governo. Però c'era stabilità nel sistema dei partiti e c'era l'indipendenza della burocrazia. Le imprese hanno bisogno di uno Stato stabile, non di un governo longevo».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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