La giustizia è un colabrodo ma salviamo almeno il look

Magistrati e legali contro sciatteria e degrado nei tribunali. L'eleganza diventa sinonimo di rispetto per gli imputati

La giustizia è un colabrodo  ma salviamo almeno il look

Nell'aula del processo a Roberto Maroni, si azzannano ad ogni udienza. Ma il pubblico ministero Eugenio Fusco e il difensore della Lega, Domenico Aiello, adesso si ritrovano in posa davanti allo stesso obbiettivo per mandare lo stesso messaggio: avvocati e giudici, vestitevi come Dio comanda. Perché la giustizia è dramma e rito, sofferenza e prestigio. Una bella giacca non allieterà di un grammo la durezza di una condanna, ma dirà all'imputato che almeno nella forma - e la forma, si sa, spesso è sostanza - il meccanismo che lo ha inghiottito non è alimento dalla sciatteria ma dal rispetto.

Così eccoli qui, a sfilare davanti al fotografo di Arbiter - la rivista diretta da Franz Botrè - gli uomini che quotidianamente incarnano il rito della giustizia, raccontati nel reportage di Stefano Zurlo. Avvocati celebri come Gian Piero Biancolella; pm come Fusco e il suo collega Luca Poniz, leader di Magistratura Democratica ma anche accurato cultore del proprio look, che cura al punto di disegnarsi i vestiti da solo. C'è un pizzico di vanità in tutti gli uomini che hanno attenzione per sé: ma in ognuno di questi reverse aleggia una polemica strisciante contro l'imbarbarimento visibile delle aule, quelle dove ci si dimentica che - come scrive Giancarlo Maresca, penalista a Napoli - «il senso del sacro è di casa in tribunale quanto in un tempio»: e via, in un tripudio di barbe incolte e di jeans tagliati, di felpe sformate e camicie malstirate. Un degrado che a Napoli ha costretto ad affiggere agli ingressi del palazzo di giustizia un cartello surreale: «Vietato l'ingresso in calzoni corti e sandali infradito».

Ai tempi di Mani Pulite, si raccontava che un imprenditore arrestato, vedendosi arrivare in carcere per l'interrogatorio un magistrato in maglietta, con la faccia di Totò e la scritta Accà nisciuno è fesso, si alzò e chiese di essere riportato in cella: e d'altronde l'eroe eponimo di quella saga, Antonio Di Pietro, a volte girava in ciabatte per la Procura. Ma lui, almeno, aveva fatto la notte in ufficio. A vagare oggi per i tribunali di tutta Italia con outfit da osteria sono legioni di magistrati e avvocati che tempo per curare la propria immagine ne avrebbero in quantità. Inconsapevolezza del proprio ruolo o disprezzo per l'interlocutore, chissà.

Così la schiera degli uomini di legge che fa dell'immagine la rappresentazione del proprio rigore interiore si assottiglia: ma si anima di una sorta di orgoglio da trincea, come se il «resistere, resistere, resistere» di borrelliana memoria si ergesse oggi contro l'invasione nelle aule della braga low cost. Al giudice che pochi mesi fa lesse la sentenza di un processo importante ostentando sotto la toga un pantalone arancione, Fusco ribatte implicitamente con i vestiti impeccabili del suo sarto di fiducia. E il suo collega Poniz sferza la categoria: «Lo stile è l'abito dei pensieri. E quel che è inaccettabile, perché rischia di contraddire la percezione dello stesso simbolo, è la trascuratezza che talvolta si nota: abbigliamenti inadatti, assenza di cravatta, persino magliette e scarpe ginniche in udienza. Un magistrato deve essere magistrato anche nel modo di vestire».

Jacopo Pensa, avvocato, racconta di un «colletto bianco» condannato da un giudice in jeans stropicciati e maglione sfilacciato: la sentenza fu equa, «ma lui avrà sempre conservato l'idea di essere stato processato da un nemico sociale». E siccome degrado chiama degrado, giudici trasandati autorizzano gli avvocati a trasandarsi anch'essi. A magistrati con i calzini turchesi fanno eco gli orrori raccolti nella pagina Facebook «Avvochic e choc», che intercetta le mise più improbabili nei tribunali di tutta Italia.

Al punto da far quasi rimpiangere il rispetto che al rito della giustizia riservano da sempre i boss della malavita, che si guardano bene dal presentarsi in gabbia in tuta: sulla scia del Don Raffaele di De Andrè. «Voi tenite o'cappott'e cammello, che al maxiprocesso eravate il più bello».

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