Politica

Il governo Draghi? Non è come Monti né come Ciampi

Un percorso nell'economia, nel quale l'unica politica è quella monetaria e di bilancio

Il governo Draghi? Non è come Monti né come Ciampi

Per il nascituro governo guidato da Mario Draghi si pone secondariamente una questione di solco storico in cui inserire questa fase politica. È ovvio che l’esecutivo guidato dal già presidente della Banca Centrale Europea nascerebbe da una scelta diretta del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha utilizzato toni sferzanti verso la classe politica simili a quelli della requisitoria di Giorgio Napolitano contro il Parlamento in seduta comune che lo aveva appena rieletto Capo dello Stato il 20 aprile 2013.

I governi tecnici in Italia sono stati sostanzialmente tre: quello di Carlo Azeglio Ciampi dal 28 aprile 1993 al 13 gennaio 1994, quello di Lamberto Dini dal 17 gennaio 1995 all’11 gennaio 1996 e quello di Mario Monti dal 16 novembre 2011 al 28 aprile 2013. Posto che la crisi pandemica rende questi tempi straordinari, a quale di queste esperienze potrebbe essere ispirato il percorso di Draghi a Palazzo Chigi?

Difficilmente all’esecutivo del senatore a vita Monti. Perché il presidente dell’Università Bocconi di Milano evoca ai cittadini italiani ricordi nient’affatto piacevoli. I modelli di austerità applicati dai professori universitari che sedevano in quel governo come ministri si tradussero in lacrime e sangue che curarono talmente bene il Paese malato da farlo quasi morire. La legge 92 del 28 giugno 2012 (“Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”) non dirà niente al lettore. Ma se nominiamo la sua madrina politica, la professoressa Elsa Fornero all’epoca ministro del lavoro e delle politiche sociali, tutto apparirà chiaro. Il 27 giugno 2012 aveva rilasciato questa dichiarazione al Wall Street Journal: «Noi stiamo cercando di proteggere gli individui non i loro posti di lavoro. L'attitudine della gente deve cambiare. Il lavoro non è un diritto, bisogna guadagnarselo, anche attraverso il sacrificio». Sempre la docente universitaria aveva già messo la faccia sulla riforma delle pensioni (articolo 24 del decreto legge 201 del 6 dicembre 2011): estensione pro-rata del metodo contributivo a quelli che erano precedentemente esclusi dalla Riforma Dini del 1995, aumento di un anno delle pensioni di anzianità, rinominate “anticipate” e abolizione delle cosiddette quote (somma di età anagrafica e anzianità contributiva), allungamento graduale entro il 2018 dell’età di pensionamento di vecchiaia delle lavoratrici dipendenti private da 60 anni a 65, adeguamento all’aspettativa di vita, dopo quello del 2019, non più a cadenza triennale ma biennale, riduzione da 18 mesi a 12 della “finestra” mobile per i lavoratori autonomi (equiparandoli, dunque, a tutti gli altri). Sul piano sociale provvedimenti drammatici a tal punto da portare alla commozione la stessa Fornero durante la presentazione della riforma alla stampa, il 5 dicembre 2011. Figlia di quel clima, cioè l’ascensione nei cieli della politica responsabile del salvatore della Patria in loden Mario Monti, la ciliegina (si fa per dire) sulla torta apposta con la firma di gran parte dello schieramento politico: il pareggio di bilancio inserito nella Costituzione, con il rinnovato articolo 81: “Lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il ricorso all'indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali”. Tradotto: un freno enorme alla possibilità per lo Stato di contrarre debito in fasi recessive per sostenere l’economia di famiglie e imprese.

Insomma, il governo Monti evoca a molti cittadini italiani depressione economica e sociale. Meglio lasciar perdere. Passiamo al governo di Lamberto Dini, chiamato anche Lambertow per la sua ventennale permanenza a Washington nel Fondo Monetario Internazionale. Salito a Palazzo Chigi il 17 gennaio 1995 dopo il clamoroso ribaltone della Lega di Umberto Bossi che aveva disarcionato alla fine del 1994 il primo esecutivo di Silvio Berlusconi, Dini era peraltro stato ministro del tesoro del Cav.

Il suo nome resta legato alla riforma delle pensioni (legge 335 dell’8 agosto 1995) che introdusse il pensionamento flessibile in un’età compresa tra i cinquantasette e settantacinque anni per uomini e donne e previde la sostituzione progressiva del sistema di calcolo retributivo con il sistema contributivo (cioè la base di calcolo per la pensione era l’insieme dei contributi versati e non più l’ultima retribuzione). Dini era stato un tecnico chiamato al governo da Berlusconi, poi capo del governo appoggiato da Lega, Democratici di Sinistra e Popolari (gli ex Dc di sinistra), poi deputato nel 1996 con una sua lista personale assieme al centrosinistra, poi ministro degli esteri sempre con il centrosinistra, poi nel 2008 eletto senatore con il centrodestra. Non proprio un esempio di coerenza di appartenenza politica. Inoltre Lamberto Dini non proveniva da un percorso interamente svolto in Banca d’Italia, essendovi giunto nel 1979 con la nomina a direttore generale dell’Istituto di Palazzo Koch. E questa circostanza ha un suo peso nel considerare Dini un tecnico puro, anche al di là del suo percorso politico successivo.

Resta “il governo del governatore”, come fu nominato dalla stampa l’esecutivo guidato da Carlo Azeglio Ciampi, in carica tra il 1993 e il 1994. Era la prima volta che a Palazzo Chigi sedeva un cittadino mai eletto a una carica elettiva. Vi arrivava l’economista che era governatore della Banca d’Italia dal 1979. Allora apparve una rivoluzione nelle Istituzioni: il governo fu composto senza che il Presidente del Consiglio consultasse i segretari dei partiti che lo sostenevano (che si chiamavano Dc, Psi, Pli, Pri, Psdi) mentre il ciclone di Tangentopoli stava spazzando via gran parte della classe dirigente della Prima Repubblica. Il paragone tra Draghi e Ciampi verrebbe quasi naturale, anche alla luce del fatto che nel 1991 il primo suggerì il secondo al ministro del tesoro Guido Carli quale direttore generale del ministero. Carica che Draghi manterrà fino al 2001.

Ci sentiremmo però di affermare che il presidente Ciampi ha avuto un percorso più politico rispetto a quello di Draghi. Ciampi da ufficiale dell’esercito visse in prima persona lo sbando dell’Italia, in testa delle forze armate, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Quelle tumultuose vicende furono oggetto di una memorabile polemica nel marzo 2001 tra il Capo dello Stato Ciampi e lo storico Ernesto Galli Della Loggia, assertore del concetto di morte della patria causata dall’armistizio dell’8 settembre. In seguito all’influenza del suo professore all’università di Pisa, il filosofo Guido Calogero, Ciampi aderì al Partito d’Azione, cioè a quel contenitore politico di liberalsocialismo che fu importante ancorchè elitario riferimento della vita pubblica italiana tra il 1942 e il 1947, anno in cui si sciolse. Ne facevano parte personalità di altissimo livello: Ugo La Malfa, Leo Valiani, Ferruccio Parri tra gli altri. Un mondo che guardava sì a sinistra, ma certamente in antitesi al blocco sovietico. È stato quest’humus politico ad animare tutta la vita di Ciampi e a farne uno degli architetti dell’Unione Europea e dell’ingresso dell’Italia nell’euro. Nei discorsi pubblici del presidente livornese si colgono com’è ovvio dati e freddi numeri da scienza triste, ma vibrano soprattutto slanci ideali e visioni della società che rendono la figura di Ciampi, in un certo senso, più simile a quella di un politico prestato all’economia che non viceversa.

Mario Draghi è il miglior medico possibile per un’economia italiana purtroppo in terapia intensiva, da ben prima che il coronavirus piombasse sulle nostre vite. Un percorso accademico internazionale, quello di Draghi, già ricordato anche in questi giorni. Che non prevede un pensiero dichiaratamente ispirato dalle tipiche culture politiche di massa del Novecento. Cioè Draghi, nato nel 1947, come la sua generazione non ha vissuto i traumi della guerra né è stato poi influenzato dal fervore politico che attraversò l’Italia in quegli anni. Il suo percorso è tutto dentro l’economia e la sua transnazionalità, con la regia tecnica dalla direzione del ministero del tesoro delle privatizzazioni di circa 30 aziende dell’industria pubblica italiana durante gli anni Novanta e fino al 2005: IMI, ENI, SME, SEAT, Alitalia, ENEL, Autostrade. Maxi dismissioni che da un lato fruttarono alle casse dello Stato circa 104 miliardi e 700 milioni di vecchie lire con un calo sensibile del debito pubblico; dall’altro, secondo alcuni, indebolirono l’Italia nel contesto internazionale facendo perdere al Paese posizioni competitive in settori strategici.

Mario Draghi è stato direttore esecutivo della Banca mondiale, cioè dell’organizzazione finanziaria internazionale che si occupa di sviluppo e investimenti con prestiti ai Paesi del mondo che versano in maggiori difficoltà economiche. È stato amministratore delegato (managing director) in Goldman Sachs, una delle più grandi e importanti banche d’affari del mondo. È stato presidente del Consiglio per la stabilità finanziaria, organismo del G20 che si occupa di controllare il sistema finanziario mondiale. La nomina di Draghi a governatore della Banca d’Italia, il 29 dicembre 2005, avvenne in un contesto emergenziale nel quale l’allora governo Berlusconi provò a difendere il prestigio di Palazzo Koch travolto dallo scandalo “bancopoli” che aveva costretto il governatore Antonio Fazio alle dimissioni. Il 26 luglio 2012 Mario Draghi, presidente della Banca Centrale Europea dal 16 maggio 2011, pronuncia a Londra alla Conferenza sugli investimenti globali la famosa frase del whatever it takes: “All’interno del nostro mandato, la BCE è pronta a fare tutto quel che è necessario per preservare l’euro. E credetemi, sarà abbastanza”. Certamente l’atto più politico di Draghi, che portò il banchiere centrale europeo, un italiano, in clamorosa rotta di collisione con la Germania di Angela Merkel. Ma potremmo dire che anche quell’atto così potente di Draghi s’iscrive in un contesto di politica monetaria per difendere l’euro da eventuali speculazioni. Ma appunto è un’Europa che fa del suo simbolo di unità una moneta. Importante, storica, dirompente nella storia valutaria. Ma per adesso unico collante tangibile di un Continente politicamente unito.

Per cui, tornando all’interrogativo iniziale, a quale precedente repubblicano rassomiglia il nascituro governo Draghi? Soltanto a quello di Mario Draghi. La cui politica presenta incognite pari alle speranze suscitate dal conferimento dell’incarico di presidente del Consiglio. Una politica che non si richiama esplicitamente a nessuna delle culture di massa che hanno segnato l’Italia e l’Occidente. Ma che può incidere profondamente sulla vita di tutti noi.

Come hanno fatto, nel bene e nel male, gli altri governi tecnici della storia repubblicana.

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