Il governo sta con Kiev, sinistra in ordine sparso e Schlein diserta l'aula

Ok alla risoluzione sull'appoggio all'Ucraina. Senza i ministri leghisti e senza la leader Pd

Il governo sta con Kiev, sinistra in ordine sparso e Schlein diserta l'aula

La risoluzione di maggioranza passa, un pezzetto di opposizione (il Terzo Polo) vota a favore della parte relativa al sostegno all'Ucraina, la premier Giorgia Meloni sale al Colle per il consueto incontro con il capo dello Stato prima di partire alla volta del vertice europeo di Bruxelles.

Ma il film della giornata a Montecitorio, con la seconda puntata delle comunicazioni pre-vertice Ue del governo e il successivo dibattito, restituisce il quadro - piuttosto desolante - di una politica chiassosa ma confusa, di una maggioranza attraversata da forti tensioni, di una opposizione divisa tra il tonitruante comiziaccio anti-occidentale di Giuseppe Conte (che tenta di ritagliarsi il ruolo di anti-Meloni e ritrova, sull'Ucraina, la perduta sintonia con l'ex alleato leghista) e l'inconcludente evanescenza del Pd di Elly Schlein, che non solo non interviene - come pure era stato annunciato - ma addirittura diserta la seduta, per non meglio precisate «ragioni personali». Regalando il podio a Conte, che si scaglia con mirabile sprezzo del pericolo contro le «giravolte» di Meloni (detto da lui) sul Mes (firmato da lui), la accusa di aver trascinato «l'Italia in guerra» dando all'Ucraina «armi sempre più offensive» (per lui gli ucraini si dovrebbero difendere dai missili russi con le cerbottane), si accora per i migranti (sorvolando sui suoi Decreti Sicurezza) e accusa il governo di essere «una brutta copia di quello di Draghi». Infine, si scaglia contro la premier rinfacciando ai suoi sodali, con un buffo lapsus, le rivendicazioni mussoliniane del «delitto Andreotti».

L'impressione finale, folklore a parte, è che sulla questione epocale della guerra e della pace, e della difesa dell'Ucraina, devastata da Putin, come baluardo delle speranze democratiche d'Occidente, Giorgia Meloni appaia più sola del solito. La Lega, che martedì in Senato si è lanciata col capogruppo Romeo in un'apologia del «pacifismo» peloso che strizza l'occhio ai dittatori Xi e Putin, non è presente sui banchi del governo, quando la premier inizia il suo intervento. «La Lega è assente dai banchi di un governo già in crisi, e per le ragioni sbagliate», twitta Carlo Calenda. Dalla maggioranza si attaccano al telefono, ma Salvini fa sapere di essere impegnatissimo a far altro. Arriva trafelato il ministro della Scuola Giuseppe Valditara, poi anche Roberto Calderoli. «Altro che guerra e pace, sapete perché la Lega sta alzando il tiro? Perché vuole le Poste», sibila un dirigente di Fdi. La vera ciccia, insomma, sarebbero le nomine nelle partecipate di Stato, altro che le armi a Zelensky. Poi in aula interviene il leghista Candiani, che in pratica smentisce il capo dei senatori Romeo: «Abbiamo allineato un fronte importante nella guerra a favore dell'Ucraina e in contrasto alla Russia», assicura.

A sinistra, intanto, fa rumore la strana sparizione della segretaria Elly Schlein. «Ieri sera ci avevano fatto sapere che sarebbe intervenuta lei, in risposta alla Meloni. Ma non la vedo», allargava le braccia Gianni Cuperlo. I fitti capannelli di deputati Pd erano comunque impegnati a discutere di nomine interne (capigruppo, segreteria) più che di Ucraina o Europa. Occasione d'oro per il grillino Conte per riprendersi finalmente la scena, dopo settimane di doloroso oscuramento: non a caso il fido Rocco Casalino presidiava fin dall'alba il Transatlantico, per intercettare i cronisti e avvertirli di un epocale intervento dell'ex premier.

Preceduto da un siparietto animato dal verde Bonelli, che tira fuori dal suo banco due pietre da lui raccolte nell'Adige in secca. «Presumo che lei non voglia dire che in 5 mesi ho prosciugato i fiumi, non sono Mosè», ribatte Meloni.

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