Politica

Del Grande torna in Italia e accusa la Turchia

Sfogo del reporter dopo giorni di detenzione a Mugla: «Io, vittima di violenza istituzionale»

Nino Materi

Gabriele Del Grande è libero. Da ieri è tornato in Italia. Non deve «pentirsi» di nulla. In Turchia stava esercitando il suo «diritto» di «documentarista». Eppure, in questo refrain dei tanti «documentaristi» che spesso partono allo sbaraglio (idem per la schiera di presunti «ricercatori», «reporter», «scrittori», «blogger» ecc.) per fare «sempre» il proprio «dovere», c'è qualcosa che non torna.

Finire nelle mani della polizia di regimi che non riconoscono la libertà di informazione rappresenta infatti una situazione doppiamente pericolosa: sia per chi viene arrestato (rischiando di fare l'orribile fine di Giulio Regeni); sia per il governo italiano che, nella delicata fase delle trattative per la liberazione del «fermato», si ritrova sotto il ricatto politico del satrapo di turno (Erdogan o uno dei tanti tiranni come lui).

Di questa «controindicazione» rispetto all'esercizio del «diritto» di «documentare» qualcosa, Del Grande (e i suoi tanti «colleghi» in giro per zone notoramente non democratiche) sembrano non accorgersi.

L'esperienza di Del Grande «ospite» degli uomini del rais di Ankara si è conclusa, fortunatamente, in pochi giorni. «Senza che nessuno mi abbia torno un capello», ha raccontato il reporter italiano. Siamo felici per lui.

Ma qual è il «costo» che l'Italia ha «pagato» (non necessariamente in termini economici) per questo «patteggiamento» diplomatico?

La Turchia si sta giocando una partita fondamentale sul tavolo verde internazionale e qualsiasi «carta» può tornare utile in un contesto di bari e bluff: una zona grigia fatta di ricatti e illegalità più o meno «istituzionalizzate». Del Grande, per la sua liberazione, ha beneficiato anche del drammatico precedente del suo «collega» Giulio Regeni: un omicidio di Stato - quello di Regeni - che il governo di Ankara non poteva certo permettersi replicare anche nel caso di Del Grande. E così ieri il nostro connazionale, dopo due settimane di detenzione, è sbarcato alle 10 all'aeroporto di Bologna con un volo della Turkish Airlines proveniente da Istanbul.

Ad accoglierlo, insieme alla compagna e ai genitori, anche il ministro degli Esteri, Angelino Alfano. Gabriele, appena messo piede a terra, ha dichiarato: «Non ho ancora capito perché sono stato fermato. La più grande difficoltà è stata la mancanza della libertà. Quella che ho subito è stata piuttosto una violenza istituzionale». E poi: «Ciò che mi è successo è illegale, sono un giornalista privato della libertà mentre sta svolgendo un lavoro in un paese amico. Ero in Turchia per scrivere un libro».

Lunga la lista dei ringraziamenti, compresi quelli alle «autorità italiane, turche e alla società civile».

La notizia del fermo di Del Grande, 34 anni, in Turchia nella zona di Hatay, era arrivata il 10 aprile scorso. La regione confina con la provincia siriana di Idlib, dove è avvenuto l'attacco chimico da parte del regime di Bashar Assad, e viene considerata off limits da militari e polizia turca. Dopo qualche giorno passato in una guesthouse nella zona di Hatay, il giornalista è stato trasferito dalle autorità locali in un centro di detenzione a Mugla.

«Ho subìto ripetuti interrogatori - ha ricordato Del Grande -. La ragione del fermo è legata al contenuto del mio lavoro».

Lo stesso «contenuto» costato la vita a Regeni.

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