Le grandi banche tifano per il pari alle urne

JP Morgan e Ubs auspicano larghe intese che garantirebbero stabilità

Le grandi banche tifano per il pari alle urne

Immaginate la celeberrima foto di Iwo Jima: ai soldati americani, sostituite le grandi banche straniere impegnate a issare la bandiera della grande coalizione tricolore, quella del governo bipolare centrodestra-centrosinistra. È un tifo aperto quanto interessato, quello che riguarda l'esito del voto del prossimo 4 marzo. Perché i poteri finanziari non vogliono rogne create dall'instabilità politica o, peggio ancora, generate da derive populiste.

Qualche prurito, peraltro, si comincia già ad avvertire sui mercati, con lo spread Btp-Bund salito ieri a 157 punti base contro i 141 della forbice tra il decennale tedesco e l'omologo titolo portoghese. In pratica, già ora, Roma è percepita come più rischiosa rispetto a Lisbona. Niente comunque a confronto di cosa potrebbe accadere se dalle urne uscissero vincitori i partiti non tradizionali, a cominciare dai Cinque Stelle. È uno scenario che secondo JP Morgan ha zero probabilità di avverarsi, ma che potrebbe far schizzare il differenziale di rendimento fino a quota 300. La banca d'affari Usa dà invece un 60% di possibilità alla formazione di un governo di larghe intese (con lo spread a galleggiare nella comfort zone dei 130 punti), mentre l'affermazione del centrodestra non va oltre il 10%. Peggio ancora il centrosinistra che raccoglie lo 0% di possibilità di uscire dalle urne vincitore.

Anche Ubs, in un report diffuso ieri, vede come probabile la formazione di una grosse koalition centrista, preferibile a un governo tecnico e, ovviamente, a un ritorno al voto che finirebbe per impattare sugli asset italiani. Soprattutto se dovesse risalire la febbre da spread, con conseguenze negative per i titoli finanziari e le utility che rappresentano il 52% dell'intero valore di titoli quotati a Piazza Affari. Dal canto suo, nei giorni scorsi Allianz aveva indicato di aspettarsi «che il centrodestra guidato da Forza Italia e Silvio Berlusconi formi un governo di grande coalizione con il Pd di Matteo Renzi, ridotto a junior partner». Un'ipotesi suggestiva, ma che implica una subalternità da parte del Partito democratico che sarebbe la conseguenza di un risultato elettorale disastroso, tale da costringere Renzi a dimettersi. Ma, al tempo stesso, non meno problematica appare una compagine governativa in cui dovrebbero convivere Pd, Lega e Fratelli d'Italia, praticamente divisi su temi caldissimi quali migranti, pensioni, rapporti con Bruxelles, euro e sicurezza.

Di sicuro, un esito elettorale incerto sarebbe anche amplificato dalla minor presenza della Bce sui mercati. Da questo mese gli acquisti mensili sono stati ridotti da 60 a 30 miliardi.

Il paracadute si è insomma dimezzato e rischia di chiudersi del tutto il prossimo settembre, quando potrebbe finire il quantitative easing. Con pesanti ripercussioni sui rendimenti dei titoli italiani e, in definitiva, sull'ammontare del debito pubblico.

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