Guerra in Ucraina

La guerra dei bambini

Nei centri di accoglienza di Volodraka e Chisinau, dove trovano rifugio i piccoli senza casa né famiglia. I volontari di tutta Europa si mobilitano per dare loro ospitalità

La guerra dei bambini

I bambini ridono e bevono succo di frutta con la cannuccia. Si sfidano ai giochi in scatola e disegnano. Stela, in piedi dall'alba, si assicura che su ogni tavolino ci siano fogli e pennarelli per tutti. Sembra di essere in un asilo nido di una qualsiasi cittadina europea. Invece siamo a Chisinau, in Moldavia, nel campo profughi allestito dall'associazione «Amici dei bambini». E Stela Vasluian non è una maestra ma la cooperante moldava del gruppo. Che da giorni si sta facendo in quattro perchè mamme e bambini ucraini ricevano accoglienza. Ha archiviato scatoloni di placinte da farcire, ha organizzato l'animazione per i bimbi («Perchè non devono perdere l'allegria») e l'assistenza psicologica per le madri, soprattutto quelle che hanno lasciato i mariti a combattere e non sanno se e quando li riabbracceranno.

Assieme al campo ucraino di Volodraka, il centro moldavo assicura a chi è scappato i primi beni di necessità, in attesa che vengano aperti i corridoi umanitari e che, si spera, si trovino soluzioni più stabili. Per ora a Chisinau arrivano donne e bimbi, ma ci si prepara ad accogliere anche gli orfani: in Ucraina, prima che scoppiasse la guerra, se ne contavano 150mila, distribuiti in 400 orfanotrofi. Molti sono già arrivati in Italia, altri vengono seguiti dalle associazioni umanitarie che hanno piazzato volontari e campi a ridosso dei confini.

La guerra dei bambini è ancora più atroce. E non ha solo il volto dolce di Alisa, uccisa dalle bombe, o di Polina, morta in auto. Ha anche il volto di centinaia di bambini che la guerra la facevano nei cortili per gioco, rossi contro blu, e che ora sono terrorizzati dal rumore delle sirene.

Quello che fa specie è che oggi vengono ospitati in emergenza proprio in Moldova, nel Paese per eccellenza degli orfani. Nel 2006 gran parte dei vecchi Internat (orfanotrofi) voluti dal regime comunista hanno chiuso, ma non del tutto e un migliaio di bambini vive ancora nei casermoni di cemento. Il paese, abituato da sempre all'idea del grosso orfanotrofio, ha perso gradualmente il concetto di nucleo famigliare. Generazioni di bambini sono state abbandonate dalle mamme, partite per lavorare come badanti, e dai padri, spesso alcolizzati. Sono cresciute con orari prestabiliti, camerate anonime, spazi spartani e sempre e solo in condivisione. Tutti uguali, proprio negli anni in cui un bambino forma la sua identità. Alla chiusura degli orfanotrofi tuttavia non è seguita alcuna politica sociale che fosse in grado di fornire un'alternativa ai «figli di nessuno». Ed essere orfano in uno dei paesi dell'Est è ben peggio che esserlo in Italia. Nel tempo, grazie alle associazioni presenti sul territorio, sono nate le case sociali, per aiutare i bambini a capire cosa significa vivere in un appartamento una volta lasciate le camerate. E, a migliorare la situazione degli istituti, ci hanno pensato le stesse associazioni che ora si stanno occupando dei bambini ucraini in fuga dalla guerra. I volontari hanno allestito ludoteche negli Internat, luoghi allegri e personalizzati, nel tentativo di creare un ponte fra la vita in istituto e la vita fuori. E tanti direttori hanno aperto i palazzoni in cemento a centri sportivi e doposcuola.

Ora all'emergenza orfani moldavi, si aggiunge quella dei bambini ucraini. Ma la mobilitazione è parecchia. E mentre sul confine si organizza l'accoglienza, in Italia tante famiglie sono corse a iscriversi ai corsi per l'affido temporaneo dei bambini.

Per ospitarli fino a quando potranno ancora chiamare casa il loro Paese.

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