Guerra al pesce spada italiano. Così l'Europa affonda la pesca

Multe, burocrazia inutile e la prossima introduzione delle quote: così il pesce spada italiano rischia di essere ridimensionato dell'Europa

Foto da Pixabay
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Il pesce spada italiano verrà disarmato. La sfida a fioretto nel mare tra Italia e Unione Europea metterà con ogni probabilità in ginocchio la pesca italiana. Armatori e marinai lo sanno, e attendono con malinconia l'arrivo di giugno, quando i Paesi dell'Ue si siederanno al tavolo per dividersi le quote di spada nel Mediterraneo.

Brutta storia, questa. Già, perché il peso piuma del Belpaese sui tavoli internazionali è cosa nota. Ma in questo caso il rischio raddoppia. La nasce dalla decisione dell'Iccat (organismo internazionale per la tutela dei tunnidi nell'Atlantico), che ha fissato un tetto per la cattura di pesce spada cui devono adeguarsi tutti i paesi che si affacciano nel Mare Nostrum. In totale dovranno spartirsi 10.500 tonnellate di produzione annua (che poi si ridurrà del 3% all'anno fino al 2022), di cui solo 7.500 per i paesi Ue. All'Italia quanto spetterà? Difficile da dire, ma è molto probabile che sarà molto inferiore rispetto al pescato attuale. Oltre alla poca capacità contrattuale italiana, pesa anche un altro fattore come spiega Repubblica in un lungo reportage: "La produzione usata come paramentro infatti è quella regolarmente fatturata, mentre resta fuori tutta la produzione in nero (che in Italia oscilla tra il 5 e il 30%) e la cossiddetta pesca non professionale, che spesso è un escamotage per aggirare gli obblighi fiscali".

Il ridimensionamento porterà ulteriore crisi ad un settore già messo in ginocchio dalla concorrenza e da un mercato non certo favorevole. Attualemente a pescare lo spada sono circa 900 navi per una produzione totale di 4.200 tonnellate (40 milioni di euro di fatturato all'anno). L'Italia sarebbe la punta di diamante del settore, visto che al momento detiene il 40% del mercato. Ma da giugno cambierà tutto. E la riduzione delle tonnellate significherà una lotta tra i singoli pescherecci, che dovranno poi dividersi le quote nazionali a disposizione del Belpaese.

La decisione dell'Iccat è stata ispirata dalla necessità di preservare la specie nel mare. Ormai il pesce spada ha ridotto del 70% la sua presenza tra le onde. Ma la colpa, dicono gli interessati, non è dei pescatori. "I pesci ci danno lo stipendio - dice a Repubblica Franco Comes - figuratevi se possiamo essere noi a fregarcene dell'ambiente. La colpa è del clima, dell'aumento della temperatura del mare". E così le quote, che pure aiutano il ripopolamento dei mari, se mal distribuite producono dei paradossi insostenibili per chi di mare ci vive. Alcuni pescherecci sono costretti a ributtare in mare il pescato o donarlo in beneficienza per evitare le multe.

E poi c'è la questione burocratica. Ogni armatore, quando prende il largo, deve registrare tutto quello che pesca su un tablet a bordo. Una follia, se si pensa alla concitazione del momento in cui, tra le onde alte, un marinaio è costretto a tirare su pesci che possono arrivare a 150 kg. Per non parlare degli affari. C'è un motivo se in porto ormai di aziende e cooperative disposte ad investire nel pesce spada ce ne sono pochi. Con gli 8-12 euro al chilo a cui si riesce a vendere lo spada, una settimana di lavoro in mare può arrivare a fatturare 15mila euro, cui bisogna togliere circa 4mila euro di costi e poi dividerli a metà tra armatore e mariniai (5 a nave).

Quello che rimane in tasca è davvero poco. E ogni anno si riescono a mettere insieme circa 80/100 bordate (uscite in mare). Non tanti come giorni lavorativi. E adesso l'Europa si appresta ad affondare l'ultimo colpo di spada.

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