Le toghe tutte schierate a difesa della casta

Ma Conte bacchetta: "Nessuna reazione emotiva può giustificare un femminicidio"

Le toghe tutte schierate a difesa della casta

Non esiste un «arretramento culturale» dentro la magistratura, non c'è uno sbandamento tra le toghe sui delitti contro le donne. Tre sentenze in una settimana che sembrano riportare al passato, quando la colpa di essere violentata od ammazzata era spesso della vittima, non bastano ai rappresentanti più in vista della magistratura italiana per lanciare un allarme. Le incredibili affermazioni contenute in particolare nella sentenza per stupro ad Ancona e in quella per uxoricidio a Genova vengono liquidate come frasi inopportune, non come la spia di una emergenza, di una distanza sempre maggiore tra il comune sentire e quello dei magistrati.

A dare la linea era stata con una intervista al Corriere Ezia Maccora, giudice a Milano, esponente storica di Magistratura democratica. «Quando si scrivono le sentenze si deve essere attenti all'utilizzo delle parole perché non ci sia nulla che possa prestarsi alle strumentalizzazioni»: concetto chiaro, evidentemente il problema non sono le parole inaccettabili messe nero su bianco dalla sentenza di Genova ma il rischio che vengano (da chi?) «strumentalizzate». Un po' di accortezza in più, suvvia, sembra dire la Maccora: anche perché «le sentenze non sono riservate ai tecnici o a una cerchia di giuristi». Peccato che le sentenze sotto accusa non siano affatto scritte in giuridichese ma in un italiano fin troppo chiaro, quasi da osteria, come quando a Ancona scrivono che la vittima sembrava un maschio e quindi non era verosimile come oggetto di desiderio.

Eppure la linea indicata da Ezia Maccora raccoglie ieri sulla mailing list delle correnti dei giudici un profluvio di appoggi, a partire da quello di due magistrati ormai in pensione, ma che continuano ad essere un importante punto di riferimento per i loro ex colleghi: «Brava Ezia» scrive Armando Spataro, fino a pochi mesi fa procuratore della Repubblica a Torino; pieno consenso anche da Edmondo Bruti Liberati, già procuratore capo a Milano. Le voci di dissenso sono poche e isolate.

Come la mutazione della composizione sociale della magistratura abbia influenzato in questi anni l'atteggiamento dei giudici, facendoli sentire sempre meno parte di una comunità e sempre più arbitri della morale altrui, è un tema che pare non possa essere affrontato. Non si parla, nella intervista e nelle reazioni, di un dato tutt'altro che irrilevante nelle sentenze di Ancona e Genova, ovvero l'origine etnica e sociali di vittime e colpevoli, tutti sudamericani, tutti inseriti in contesti ad alto tasso di alcol e di violenze. Non ci si chiede se gli «elementi superflui» contenuti nelle sentenze sarebbero finiti con la stessa brutalità in un processo che avesse per vittima una signora della Milano bene.

Il giudice che ha emesso la sentenza di Genova, quella che ha accusato la donna ammazzata di avere «illuso» il suo persecutore e di «non essere cambiata», viene definita dal procuratore del capoluogo ligure, Francesco Cozzi, «persona e magistrato di grande equilibrio e professionalità, una donna di grandissima capacità». Chissà cosa avrebbe scritto, viene da dire, se fosse stata anche di scarsa capacità.

Alla fine, a prevalere sembra essere la difesa di categoria, se non di casta, ovvero l'aureo principio che le sentenze si devono rispettare sempre e comunque.

Ma è proprio su questo punto che le toghe devono incassare l'intervento del presidente del Consiglio Giuseppe Conte: «Le sentenze dei giudici si possono discutere - dice il premier - anzi, in tutte le democrazie avanzate il dibattito pubblico si nutre anche di questa discussione». E «nessuna reazione emotiva, nessun sentimento, pur intenso, può giustificare o attenuare la gravità di un femminicidio».

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