
Adesso sono 249. Leggete bene quel numero. È il bilancio aggiornato dei giornalisti e dei cameraman uccisi a Gaza nei 690 giorni di attacchi condotti da Israele dopo i massacri del 7 ottobre. In pratica un giornalista ogni due o tre giorni di guerra ad Hamas. Basterebbero queste cifre per dire "basta". Per gridare "vergogna". Ma al peggio non sembrano esserci limiti. E neppure al feroce cinismo di chi ha trasformatola la guerra ai terroristi di Hamas in un tiro al bersaglio contro chiunque viva nella Striscia.
L'uccisione ieri di Hossam Al Masri cameraman di Reuter, Mohammed Salameh, giornalista di Al Jazeera, Mariam Abu Daqa 33 collaboratrice di Ap , Moaz Abu Taha (le prime informazioni lo indicavano come cameraman della rete americana Nbc, ma dal canale Usa non sono arrivate conferme) e del free lance Ahmad Abu Azi è il simbolo di quest'orrore. Quando sono stati colpiti i cinque colleghi facevano soltanto il proprio lavoro. Puntavano gli obbiettivi sui droni che, dopo un primo raid aereo sull'ospedale Nasser di Khan Younis , bersagliavano le squadre di medici e infermieri corsi a soccorrere le vittime dell'attacco. Certo la versione dell'esercito israeliano racconta che l'ospedale, l'ultimo ancora aperto nel sud della Striscia, era anche il rifugio dei vertici di Hamas pronti a "usare cinicamente e crudelmente la popolazione civile dentro e fuori l'ospedale". Probabilmente è vero. Questo, però, non giustifica l'eliminazione di cinque giornalisti impegnati a documentare l'assalto a un ospedale attorno al quale si accalcano da settimane migliaia di feriti e pazienti accomodati a terra o su brandine di fortuna. Anche perché a dilaniare i cinque colleghi non sono state le bombe di un caccia-bombardiere, troppo veloce o troppo alto nel cielo per valutare chi si muovesse intorno all'obbiettivo. A colpire e uccidere sono stati uno o più droni. Ovvero quei velivoli telecomandati diventati protagonisti della guerra contemporanea proprio per la loro capacità di individuare con estrema precisione gli obbiettivi e colpirli altrettanto selettivamente.
Dunque a decidere l'eliminazione di Hossam, Mohammed, Mariam, Moaz ed Ahmad non è stato il caso, non è stata la nebbia della guerra, ma il responsabile della sala controllo dei droni. Un sala dove le immagini ad alta risoluzione trasmesse dal cielo permettono di distinguere con facilità i giubbotti antiproiettile azzurri simbolo dei giornalisti di Gaza, le scritte press appiccicate alle pettorine e le telecamere puntate verso l'ospedale. E soprattutto di non confonderli con dei terroristi armati. Proprio per questo la promessa dell'esercito israeliano di aprire un'inchiesta è risibile.
Proprio per questo l'eliminazione di Hossam, Mohammed, Mariam, Moaz ed Ahmad suscita particolare sdegno. Per molti la loro uccisione rappresenta l'atto deliberato di un esercito impegnato ad evitare che le immagini dell'assalto all'ospedale sollevassero nuove sdegnate reazioni dell'opinione pubblica internazionale. E stavolta a poco valgono le giustificazioni del governo israeliano pronto a liquidare come militanti o collaboratori di Hamas i giornalisti rimasti a Gaza.
Se anche lo sono, e talvolta lo sono, la responsabilità del loro utilizzo da parte dei media internazionali è solo di chi da 690 giorni non concede ad alcun reporter indipendente il permesso di raccontare quanto succede nella Striscia.