
Letizia Moratti, ora europarlamentare, è stata sindaco di Milano e ministro dell'Istruzione, entrambi ruoli nei quali ha accumulato numerose esperienze dirette sulla vita nei campi nomadi: "Un bambino che ruba potenzialmente può diventare da grande un bravo meccanico".
Che cosa ha provato quando ha saputo della donna uccisa?
"Un dolore profondo per la signora e per la sua famiglia, un forte dispiacere perché nella nostra Milano succedono tali cose e tristezza per i bambini che sono vittime delle grandi responsabilità dei genitori".
Come pensa che si possano risolvere situazioni di questo genere?
"Da sindaco avevo promosso intorno al 2007 un patto di legalità e di socialità dei campi nomadi. Avevo percepito che c'era una grandissima paura degli abitanti che vi abitavano vicino per i problemi di gravissimi illegalità: bambini mandati a rubare, scippi, intimidazioni, con episodi di violenza anche nelle proprie case".
Il patto riguardava solo i bambini o intere famiglie?
"Prevedeva una serie di norme per i capi famiglia che garantivano la convivenza civile, l'igiene, l'istruzione obbligatoria e percorsi di accompagnamento sociale per le persone o per i nuclei familiari coinvolti. Si chiedeva l'impegno a rispettare delle regole, quindi la scolarizzazione dei figli, l'attività lavorativa, l'assenza di attività illecite, la pulizia dell'area. Il mancato riscontro poteva comportare sanzioni, come l'allontanamento dal campo".
Ha incontrato ostacoli?
"Il progetto venne incluso nei presidi sociali che avevamo istituito all'interno del piano elaborato col ministro dell'Interno, Roberto Maroni. Purtroppo col governo Prodi non ero riuscita ad avere una giusta attenzione. Con Maroni i risultati ci sono stati perché abbiamo avviato percorsi di reinserimento e di uscita dalle aree di sosta per poco meno di 100 nuclei, quindi progetti di vera integrazione, abbiamo istituito il portierato sociale a presidio delle aree rom, fatto più di 500 sgomberi in un solo anno, abbiamo ridotto di diecimila persone la presenza dei rom. Abbiamo chiuso il più grosso campo che era Triboniano, abbiamo trasformato Idro in campo di sosta, quindi non permanente".
Vede esempi virtuosi in questo momento?
"Il modello da promuovere sarebbe il decreto Caivano, lì è stato fatto un bellissimo lavoro di contrasto alla criminalità: anche se quel caso era diverso perché nasceva da un altro episodio di violenza sui minori, l'obiettivo è stato contrastare il disagio giovanile, la povertà educativa, la criminalità minorile che sono tutti gli elementi che si ritrovano anche nella tragedia milanese".
Lei pensa che ci sia cooperazione da parte dei nuclei familiari o che sia vera la posizione di chi sostiene che non si vogliono integrare?
"Non è un'integrazione facile, va guidata, quindi vanno accompagnati e vanno previste sanzioni se questa integrazione non si attua. È un fenomeno che deve essere governato con regole, con percorsi di accompagnamento e con sanzioni".
Il suo piano era stato attaccato da più fronti.
"Le opposizioni, ovviamente sì, contestavano un approccio che era volto a tutelare la sicurezza, bene che deve essere difeso insieme alla convivenza civile, l'integrazione e soprattutto la scolarizzazione dei bambini, perché è chiaro che la scolarizzazione porta integrazione, coscienza e rispetto che senza un percorso educativo i bambini fanno fatica ad avere".
Adesso si potrebbe creare un consenso intorno a obiettivi di questo genere?
"Penso che una parte della sinistra potrebbe condividerli, per un'altra parte sarebbe più difficile, perché il tema della sicurezza purtroppo è visto come un tema di destra. Non è così, è un tema che riguarda tutti i cittadini. Questa è non consapevolezza di quello che i cittadini purtroppo vivono sulla loro pelle in maniera a volte anche drammatica".
Esiste anche la possibilità di aprire delle scuole nei campi. È praticabile?
"È il modello francese e inglese, avere scuole per le diverse etnie. Ne avevo discusso a lungo anche a livello di Ocse quando ero ministro ma io sostenevo il nostro modello di integrazione, ma nel rispetto delle diversità delle culture. Credo ancora che sia quello che funziona meglio".
L'uscita dai campi significa mettere a disposizione nuovi alloggi popolari? Non si rischia di creare una guerra tra bisognosi?
"Non la vedo come l'unica soluzione nel modo più assoluto, perché queste persone devono essere accompagnate anche a una vita lavorativa e con regole che
impediscano favoritismi nell'assegnazione degli alloggi popolari. Inoltre i rom sono cittadini europei e come tali non è detto che debbano sostare esclusivamente nel nostro Paese. Con il nostro piano in molti si erano allontanati".