I due capistazione della tragedia pugliese sono nei guai. Il loro lavoro è ora passato - giustamente - ai raggi X. Un dramma dal quale difficilmente potranno riprendersi, soprattutto sotto il profilo morale e psicologico. Un'angoscia che speriamo sia lenita almeno dalla consapevolezza di appartenere a una categoria che annovera tra le sue fila autentici eroi. Colleghi con fischietto, paletta e cappello rosso che hanno rischiato la vita per evitare stragi ferroviarie o che non si sono fatti intimidire dal rischio di finire un lager nazista. Sì, nella storia gloriosa di chi ha onorato la divisa da capostazione c'è anche questo: chi ha nel pieno della Seconda guerra mondiale ha salvato decine di ebrei italiani dalla deportazione, rischiando a sua volta di finire in un campo di concentramento.
La storia però inizia una mattina del 19 luglio 1943, quando Roma subì il primo terribile bombardamento da parte delle forze alleate, e iniziò per la città e i suoi abitanti il periodo peggiore del secondo conflitto, con la caduta del governo fascista, l'armistizio, la violenta occupazione militare tedesca, la deportazione degli ebrei, l'orribile strage delle Fosse Ardeatine e, infine, la liberazione. Un anno drammatico che Peppino Bolgia figlio allora dodicenne di Michele Bolgia ricorda con immensa commozione perché in quei mesi perse entrambi i genitori, la mamma Cristina falciata dai caccia americani che martoriavano le strade del quartiere di San Lorenzo tra un'ondata e l'altra di quel funesto bombardamento, il papà barbaramente ucciso insieme con altri 334 innocenti nelle cave di pozzolana dell'ardeatino, a marzo del 1944. Quello che Peppino non sapeva ancora, quando a ottobre fu rinvenuto il corpo del padre nelle Fosse Ardeatine, riconoscibile solo per l'orologio da ferroviere che gli era stato lasciato nel taschino e per un'agendina telefonica, era che Michele Bolgia, cinquantenne impiegato della Stazione Tiburtina in servizio quasi sempre notturno, era un eroe. Lo Stato Italiano ne ha riconosciuto valore e potenza solo nel 2010, quando il guardasala è stato insignito della postuma e meritata Medaglia d'Oro al Merito Civile, con la seguente motivazione: «Ferroviere, in servizio presso la Stazione di Roma-Tiburtina, durante l'occupazione tedesca contribuì con l'apertura clandestina dei vagoni piombati alla fuga e al salvataggio di molti deportati destinati ai campi di concentramento e venne successivamente ucciso alle Fosse Ardeatine. Mirabile esempio di umana solidarietà ed elette virtù civiche, spinte fino all'estremo sacrificio, 1943-1944, Roma».
Altro capostazione eroico: Carmine Magliano, capace di evitare col suo coraggio che la tragedia di Viareggio (18 morti per il deragliamento in stazione di un merci con cisterna contenenti gas Gpl). Erano le 23.50 del 30 giugno 2009 il treno a Viareggio era appena esploso ed ecco Magliano urlare ai colleghi: «Io corro sui binari». Agitando le braccia per farsi vedere, perché lo vedesse chi guidava l'Intercity che arrivava da Roma con un centinaio di passeggeri. Carmine quel treno l'ha fermato e quelle vite le ha salvate. Carmine capostazione ed eroe. Ma non per caso.
Non dove Mario, il manovratore, aveva le mani legate, visto che leve e comandi non rispondevano agli ordini. Allora Carmine, 58 anni e padre di due figli, ha deciso di fare un tuffo nel passato e di avventurarsi per i binari e di sbracciarsi con la paletta per indicare il pericolo. Come succedeva prima.
Prima, però, aveva tolto l'elettricità alla linea, facendo bloccare il convoglio deragliato e salvando la vita dei due macchinisti. Nessuna macchina avrebbe avuto la stessa tempestività, nessuna computer avrebbe avuto l'intelligenza necessaria per fare altrimenti. L'unica sua dichiarazione? «Non potevo fare altrimenti».
Di lui sarebbe stato orgoglioso anche il suo collega Nello Capuzzo. Correva l'anno 1961 e l'allora dirigente della stazione ferroviaria di Dolcè (Verona), Nello Capuzzo, sventò una strage dando il primo allarme. Fu un ordine nato da una personale intuizione che impose al macchinista del direttissimo 69 proveniente da Monaco di procedere a passo d'uomo. Si evitò, in questo modo, una sciagura ferroviaria che a seguito di un attentato terroristico avrebbe avuto gravi conseguenze.
«Si trattò di pochi minuti, ma sufficienti per evitare una strage», spiega Stefano.
«Pochi istanti di ritardo che sono valsi a mio padre il premio delle Ferrovie dello Stato ed un solenne encomio». Erano le 23.27 e se il treno fosse stato in orario al chilometro 39 avrebbe cozzato ad alta velocità contro i piloni abbattuti qualche minuto prima da un attentato dinamitardo.
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