I deliri della toga rossa: un diritto le ingerenze

La presidente di Magistratura Democratica Silvia Albano lancia sos sulle minacce alla libertà dei giudici e paragona l'Italia alla Turchia

I deliri della toga rossa: un diritto le ingerenze
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L'Italia come la Turchia. Meloni come Erdogan. Tra i protagonisti dell'infinita battaglia tra il governo e la magistratura, c'è spazio anche per chi azzarda parallelismi improvvidi per rivendicare l'intoccabile indipendenza delle toghe. Parliamo di Silvia Albano neo presidente di Magistratura Democratica, che ieri in una intervista a Repubblica ha lanciato allarmi, paventato minacce e sciorinato lezioni di giurisprudenza. Il tutto condito dal solito vittimismo e dal refrain del fango del Giornale, reo di aver scavato nei suoi profili social. Nella lunga intervista dito puntato contro l'atmosfera ad alta tensione creata dall'esecutivo. «Un clima simile non aiuta il mio lavoro e un esercizio sereno della giurisdizione, essere attaccata sul piano personale un po' di timore lo provoca, per via dell'effetto moltiplicatore tipico dei social. Non si può mai prevedere che conseguenze tutto questo può avere sulla variegata platea di persone che li frequenta», lamenta la giudice del tribunale civile di Roma nella sezione specializzata in diritti della persona e immigrazione. Il clou arriva sulla riforma del premierato e sull'ostruzionismo di alcune frange della magistratura. «Per la funzione che la Costituzione assegna al potere giudiziario, credo che la magistratura abbia il dovere di intervenire nel dibattito pubblico sulle riforme istituzionali ed evidenziare le conseguenze che ritiene potrebbero derivare da un'alterazione dell'equilibrio tra i poteri disegnato dai costituenti». Insomma, per la Albano, l'ingerenza sulle questioni politiche per la Albano è un caposaldo legittimo e indiscutibile. E, per spiegarlo meglio, aggiunge che «la Consulta, in più sentenze, ha scritto che i magistrati godono del pieno diritto di associarsi e di partecipare al dibattito pubblico, e lo ha detto anche la Cedu sui giudici turchi e la Corte di giustizia sui colleghi polacchi».

Se già il paragone con la Polonia è abbastanza tirato, dal momento che la sentenza citata riguarda misure di vero e proprio controllo dei giudici da parte del governo, il raffronto con la Repubblica del Sultano fa storcere il naso ancor di più, sia perché lì i magistrati hanno davvero vita dura, subiscono arresti e censure, sia perché l'ultima classifica globale del World Justice Project sullo stato di salute dell'ordinamento giudiziario colloca la Turchia al 117esimo posto su 142. L'Italia, per la cronaca, è al 32esimo posto.

Ed è anche per merito di questa posizione che la Albano ha potuto firmare appelli a difesa della separazione delle carriere, promettere ricorsi in caso di ratifica dell'accordo Italia-Albania sui migranti, difendere la collega Apostolico, criticare le norme sull'immigrazione, opporsi ai respingimenti in Slovenia e condividere raccolte fondi e l'operato di Sea watch o Mare Jonio, sanzionata e finita sotto processo a Ragusa. Senza che la sua incolumità abbia corso alcun rischio.

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