Molti mesi dopo, una sera forse d'autunno, i genitori di Chiara mi fecero entrare in casa. L'aria era fresca, le zanzare avevano tolto l'assedio e anche i cronisti si erano in gran parte dileguati. Ma oramai Garlasco era entrata nella mappa tinta di rosso dei grandi gialli tricolori. Mi bastarono due minuti di orologio per capire: per i genitori di Chiara Poggi il mistero non c'era. C'era solo lui, Alberto Stasi, e poi c'erano i rituali incomprensibili, cervellotici, estenuanti di una giustizia non all'altezza. Incerta e confusa, anche se nella loro rispettosa compostezza non l'avrebbero mai ammesso.
La mamma, senza alcuna esitazione, mi porse dei post it gialli: «Eravamo partiti per le vacanze in Trentino. Era la prima volta che Chiara rimaneva sola. E su questi foglietti le avevamo lasciato le indicazioni per ogni evenienza. Se fosse arrivato, che ne so, il tecnico del gas o altro». Leggevo quelle povere righe e meditavo sui fregi barocchi di un sistema capace di complicare qualunque partita. Qualcuno aveva violato il nido di Chiara, qualcuno che abitualmente lo frequentava, un nido costruito e difeso a oltranza. Chiara aveva 26 anni, una laurea con lode, aveva lavorato a Milano, ma il cordone ombelicale con la famiglia non era mai stato reciso. Anzi, tutto o quasi era rimasto immobile fino alla mattina del 13 agosto 2007 quando l'avevano uccisa e il mondo aveva scoperto quel puntino, fra le campagne e le risaie della Lomellina.
Provai a rilanciare: «Magari Chiara sul pullman, quando tutte le mattine viaggiava verso Milano, avrà conosciuto qualcuno e chissà cosa può essere successo». Non ci credevo, perché tutto, a dispetto del frastuono mediatico, appariva terribilmente semplice, ma insistevo. «Nostra figlia - fu la risposta definitiva, colma di sofferenza e dignità - non apriva mai agli sconosciuti. Lei ha disinserito l'allarme perimetrale alle 9.12 e dev'essere morta dopo pochi minuti». Alle 9.20-9.25. La procura di Vigevano si ostinava a spostare l'orario: verso le 11-11.30, mezzogiorno. Ma il buonsenso rimetteva le lancette in avanti. Senza incertezze: «Si è svegliata, ha fatto colazione, poi sarebbe rimasta al buio, in piena estate, con tutte le tapparelle abbassate, senza rispondere al telefono e senza mandare un solo messaggio, per due o tre ore in attesa di morire. La verità è che quella mattina è morta subito». Non c'era altro da aggiungere, mentre quegli occhi che era difficile sostenere mi fissavano quasi con candore. Mancava ancora la rasoiata finale: «Chiara conosceva solo Alberto». Non era una condanna, era pure peggio.
Mi rimbombavano in testa le parole che la vicina di casa Franca Bermani, una nonna dal volto rassicurante, mi aveva detto con assoluta sicurezza due o tre giorni dopo il delitto: «Verso le 9.10 ho notato una bici nera da donna appoggiata alla recinzione della casa». Mi ero precipitato dai carabinieri che mi avevano disilluso con una spiegazione disarmante: «La Bermani è molto anziana. Chissà cosa ha visto». E invece tutto tornava, almeno nei mulinelli di noi cronisti che avevamo espropriato un paese abituato da secoli a una calma piatta e immobile. Chiara e Alberto, una coppia come tante, avevano mangiato la pizza insieme. Poi doveva essere scoppiato un litigio furibondo, forse perché lei, mentre lui era fuori, aveva aperto il suo computer e scoperto un altro Alberto: un feticista che collezionava foto di donne.
Alberto se n'era andato a casa, dall'altra parte di Garlasco, e la mattina era tornato: una scintilla e la lite era ricominciata. Un attimo e tutto era finito. Ventitrè minuti in tutto, fra le 9.12 e le 9.35, quando Alberto aveva riacceso il computer di casa. Ventitré minuti: più che sufficienti per andare, ammazzare e tornare alla base. E invece la storia si attorcigliava, si complicava, si confondeva. Alberto era sempre più sospettato e sempre libero. Il tutto sotto i riflettori; quello di Garlasco era ormai un dramma nazionale, e per più di una ragione: anzitutto, il calendario, a ridosso di Ferragosto. Poi il carattere dei due: lei timida e trasparente ma risoluta, lui impenetrabile e gelido, forse irrisolto. Ancora più gelido in quella stranissima telefonata al 118, alle 13.50, un attimo prima di andare dai carabinieri: «C'è una ragazza morta. Ma forse è viva... È la mia fidanzata». Riversa sui gradini che portavano alla tavernetta. Non si era sporcato i piedi, Alberto, calpestando tutto quel sangue, ed era arrivato in caserma lindo come uno scolaretto. Come aveva fatto? E la richiesta d'aiuto impacciata, dal tono posticcio? L'opinione pubblica, calamitata dal rompicapo, dibatteva e si divideva. No, quell'accento spaesato, poco o nulla convincente, non era il frutto di una tattica diabolica, ma il risultato dello choc patito. Innocentisti e colpevolisti intenti a disquisire, con l'apparato investigativo a mischiare le carte fino a confonderle. Ecco il maresciallo Francesco Marchetto protagonista di un pasticcio dalle conseguenze catastrofiche: il 14 agosto va a vedere la bici nera da donna, parcheggiata presso l'azienda del padre di Stasi, ma se la cava con due righe: «Non è quella indicata dal teste Bermani». Invece è proprio quella o, comunque, le assomiglia come una goccia d'acqua. Incredibile: viene sequestrata la bici bianca di Chiara, vengono prelevate altre due bici di Stasi, una bordeaux e una grigia, ma non quella giusta. Anche perché Marchetto non era presente alla deposizione della signora.
Al processo di primo grado, imbeccato dal giudice Stefano Vitelli, Marchetto si supera e afferma di essere stato presente al racconto della Bermani. Per questo ha trascurato la bici nera che non aveva niente a che fare con quella descritta dalla donna. Una menzogna bella e buona. Pare di sognare. La bici nera resta ad arrugginire. Gli errori si susseguono. L'orario della morte continua a ballare. Le perizie si accumulano le une sulle altre come tesi di laurea che vanno in tutte le direzioni. Peccato che l'esame decisivo quello sulla camminata di Stasi, che ha miracolosamente schivato il sangue, sia monca: è stata fatta senza tenere conto della grande macchia davanti alla porta delle scale. Un errore imperdonabile.
L'avvocato Gianluigi Tizzoni, legale di parte civile e mastino straordinario, contesta questo interminabile treno di negligenze ma il vento soffia dalla parte dell'imputato. Stasi viene assolto in primo grado e assolto ancora in appello. Sembra finita. E invece no: la Cassazione sconfessa quei verdetti e ordina un nuovo dibattimento. La bicicletta viene finalmente recuperata nel 2014: è in sostanza quella indicata dalla vicina, anche se qualcuno ha misteriosamente sostituito i pedali che, si può solo immaginare, si erano riempiti di sangue. Non solo: si scopre pure che Marchetto ha mentito e solo la prescrizione lo salva in appello, dopo una condanna in primo grado.
Ma è soprattutto il nuovo esperimento sui passi di Stasi a casa Poggi a mettere
ko il fidanzato. Impossibile entrare in quel mattatoio e venirne fuori come un angelo, le scarpe immacolate. Stasi, riacciuffato in extremis, viene condannato. Nel 2015, finalmente cala il sipario. Comunque, troppo tardi.
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