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I poteri a fisarmonica del Colle

Gli inquilini del Colle hanno a loro disposizione una fisarmonica che entro certi limiti si può restringere o allargare. Nel primo caso avremo presidenze notarili, nel secondo caso presidenze interventiste.

I poteri a fisarmonica del Colle

Nel delineare i poteri del capo dello Stato, un asso del diritto costituzionale come Giuliano Amato ha usato una metafora che ha avuto successo. A tal punto che ormai non c'è monografia, saggio o articolo di giornale sulle prerogative del presidente della Repubblica che non l'abbia ripresa. Ma che cosa ha sostenuto il Professore? Ha affermato che gli inquilini del Colle hanno a loro disposizione una fisarmonica che entro certi limiti si può restringere o allargare. Nel primo caso avremo presidenze notarili, nel secondo caso presidenze interventiste.

La fisarmonica, si capisce, va maneggiata con cura. Altrimenti si corre il duplice rischio di uno strumento in pratica silente o di uno strumento che, dilatato a dismisura, può andare in mille pezzi. Tanto per non fare nomi e cognomi, Francesco Cossiga ha toccato i due estremi. Tant'è che Indro Montanelli scrisse che se Cossiga se ne fosse stato ancora per molto muto come un pesce, il Quirinale gli sarebbe stato stretto: gli sarebbero bastate due camere e cucina. E per l'ultimo biennio ha picconato tutto e tutti non perché fosse matto ma anche perché lo si voleva sloggiare dal Colle anzitempo e in malo modo.

Dopo tutto, Cossiga era il classico cane che abbaia ma non morde. A differenza del suo successore, Oscar Luigi Scalfaro, che più che abbaiare mordeva. Costrinse alle dimissioni il governo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi, nonostante godesse ancora della fiducia parlamentare, allo scopo di sciogliere le Camere motu proprio. Pose tutta una serie di condizioni al primo ministero Berlusconi, esercitando così un improprio condizionamento sull'indirizzo politico di governo. E a reti unificate pronunciò quel «Non ci sto», a proposito dei fondi riservati del ministro dell'Interno, che fu parecchio chiacchierato. Ma ecco il paradosso. Uno Scalfaro devoto al Parlamento, buon vicepresidente e poi presidente per poco tempo della Camera dei deputati, una volta salito sul Colle darà vita a un presidenzialismo esasperato. Senza precedenti.

Ma perché Giuliano Amato ha potuto paragonare il Quirinale a una fisarmonica? Perché la nostra è sì una Costituzione rigida, in quanto per la sua modifica occorre una doppia deliberazione da parte dei due rami del Parlamento, e garantita dalla Corte costituzionale. Ma è anche ambigua perché frutto di un compromesso tra il diavolo e l'acqua santa. Al punto che Giuseppe Maranini, l'implacabile critico della partitocrazia, ha potuto affermare che una particolare interpretazione della nostra Carta porterebbe alla conclusione che la Repubblica italiana, come quella degli Stati Uniti, è presidenziale e federale al tempo stesso.

Nella famosa relazione al progetto di Costituzione, presentata alla presidenza dell'Assemblea costituente il 6 febbraio 1947, Meuccio Ruini traccia un bel profilo del capo dello Stato. Scrive: «Egli rappresenta ed impersona l'unità e la continuità nazionale, la forza permanente dello Stato al di sopra delle mutevoli maggioranze. È il grande consigliere, il magistrato di persuasione e di influenza, il coordinatore di attività, il capo spirituale, più ancora che temporale, della Repubblica». Espressioni di grande efficacia. Ma nulla più. Palmiro Togliatti si prese burla di Vittorio Emanuele Orlando, il presidente della Vittoria: «Lo so quello che lei cerca: la figura del re. Ma noi non l'abbiamo voluta». Una sgrammaticatura, la sua. Perché il nostro presidente della Repubblica può avere più potere del re sabaudo.

D'altra parte, l'ambiguità della Costituzione non spiega tutto. Conta anche la particolare situazione politica: più è ingarbugliata e più contano le prerogative del capo dello Stato. Al punto che uno studioso autorevole come Carlo Esposito sostenne che nei momenti di crisi l'inquilino del Quirinale si erge a supremo reggitore dello Stato. Così come ha la sua importanza la sua personalità. Si pensi a Pertini. Lui i presidenti del Consiglio non li nominava. Di più: li sceglieva.

Nel bel mezzo del dibattito attuale, Enrico Letta dice: o larga maggioranza o cade il governo. È facile obiettare che Cossiga, eletto al primo scrutinio a larga maggioranza, ha rischiato di essere messo in stato d'accusa da Enrico Berlinguer, il cugino. Mentre Luigi Einaudi, eletto al quarto scrutinio dai soli partiti di centro, è stato il miglior presidente che l'Italia abbia avuto. Mentre la caduta del governo, più che una previsione, si direbbe una minaccia.

Nel qual caso il numero uno del Pd si comporterebbe come quel marito che per far dispetto alla moglie fece il sacrificio d'Origene.

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