Politica

I rischi del tafazzismo

Qualche anno fa - ormai si parla di decenni - un personaggio inventato dal trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo, Tafazzi, diventò l'emblema del masochismo di sinistra

Corazzieri di guardia all'ingresso dello studio del capo dello Stato
Corazzieri di guardia all'ingresso dello studio del capo dello Stato

Qualche anno fa - ormai si parla di decenni - un personaggio inventato dal trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo, Tafazzi, diventò l'emblema del masochismo di sinistra, cioè della capacità di questo schieramento di farsi male da solo. Il personaggio satirico, interpretato da Giacomo Poretti, aveva l'abitudine di percuotersi con una bottiglia di plastica vuota gli zebedei. Ora c'è il rischio - tutt'altro che remoto - che la sindrome contagi pure il centrodestra. I sintomi sono evidenti: competizione interna esasperata, ambizioni personali, divisioni feroci.

La patologia si esprime nell'incapacità di trasformare la propria forza, il proprio consenso, in risultati. È avvenuto nelle ultime elezioni amministrative, quando la coalizione non è riuscita a toccare palla né a Roma, né a Milano. E ora gli stessi limiti si stanno riproponendo nelle elezioni del capo dello Stato.

Il primo segnale sono state le lacune mostrate dal centrodestra nel supportare la candidatura di Silvio Berlusconi al Quirinale. Poi, in questa seconda fase, dopo che il Cavaliere per salvaguardare gli interessi del Paese e della coalizione ha rinunciato a correre, non c'è stato quel colpo di reni sull'altare del suo sacrificio per rendere l'alleanza più unita. Anzi, addirittura nella votazione di ieri Giorgia Meloni ha presentato un suo candidato, Guido Crosetto, mentre leghisti e azzurri hanno votato scheda bianca. Una forzatura non da poco.

Ora c'è da verificare se, strappo dopo strappo, l'alleanza esista ancora o no. Almeno nella sua interezza. Perché l'uscita della Meloni di ieri di fatto ha reso difficile, se non impossibile - per non andare incontro ad infortuni - la presentazione di una candidatura dell'area di centrodestra. Un obiettivo che aveva in mente Salvini per marcare il passaggio da un trentennio in cui la sinistra ha fatto quello che voleva sulla presidenza della Repubblica, ad un'altra fase nella quale il centrodestra ha il diritto-dovere di dire la sua. Un'operazione che la divisione emersa ieri ha reso rischiosa: nei fatti si è trattato di un atto di sabotaggio per colpire la leadership di Salvini, come succede nel palio di Siena in cui le contrade vicine si fanno la guerra; quando la Tartuca, se non ha la possibilità di vincere, ostacola la Chiocciola solo perché ci confina. Uno scontro fratricida.

Messa così è evidente che non si va da nessuna parte. Né oggi, né domani. Per l'oggi è difficile giocare una partita di coalizione, visto che si è divisi. Il centrodestra può avanzare due ipotesi: un suo nome e un altro che vada incontro all'altro schieramento. Un modo per difendere la propria identità e comunque puntare al pareggio (la Casellati di bandiera e Casini per avere il sì del centrosinistra), evitando almeno che ci sia un cambiamento di sistema, cioè che la salita di Mario Draghi al Quirinale non determini un processo di trasferimento del potere esecutivo da Palazzo Chigi al Quirinale. In questo modo - dovrebbe capirlo la Meloni - le elezioni politiche sarebbero solo un rituale, visto che al vincitore resterebbe solo un potere virtuale: il governo, infatti, sarebbe sotto la tutela di un capo dello Stato non legittimato neppure da un'elezione diretta.

Per il domani, invece, i leader dei partiti del centrodestra dovrebbero chiedersi una volta per tutte, guardandosi negli occhi, se a queste condizioni valga ancora la pena di stare insieme.

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