Volevano chiudere la bocca ai giornalisti, definitivamente. I terroristi islamici ci avevano già provato con un attentato alla redazione nel novembre 2011, incendiando la sede di Charlie Hebdo con le bombe molotov. Ma il settimanale francese non si era piegato alle intimidazioni e aveva continuato la sua campagna di satira contro l'intolleranza religiosa. Dopo l'attentato e le continue minacce al direttore, ai giornalisti e ai vignettisti, il governo di Parigi aveva deciso di mettere alcuni agenti di polizia a presidiare la redazione. È stato tutto inutile, come abbiamo tragicamente constatato.
La strage di Parigi dovrebbe essere un monito per tutti i governi affinché difendano con forza la libertà d'informazione senza balbettare scuse di circostanza per il quieto vivere. La Francia ha difeso con vigore questo diritto. Quando il 30 settembre 2005 il quotidiano danese Jyllands Posten pubblicò alcune vignette satiriche su Maometto, seguito a ruota dalla rivista norvegese Magazinet e dal settimanale Charlie Hebdo , si scatenarono violente proteste nel mondo islamico. Questo spinse il governo danese, d'accordo con la Lega Araba, a diffondere una lettera di condanna contro «tutte le azioni volte a demonizzare alcuni gruppi in virtù del credo e dell'appartenenza etnica». E, poco dopo, tutti i direttori chiesero scusa per l'offesa recata. Tutti, a eccezione di quello di Charlie Hebdo. Che ricevette il pieno sostegno del governo francese, tanto che il 15 marzo 2006, il ministero della Cultura organizzò una serata in onore dei disegnatori della carta stampata, proprio per il caso delle caricature di Maometto. Un omaggio fu tributato ai vignettisti, definiti «agenti della libertà» dal direttore del gabinetto del ministro della Cultura.
Una cosa impensabile in Italia. Qui i giornalisti non devono aver timore di terroristi o integralisti che chiudano loro la bocca, ci pensano già il governo e il Parlamento a mettere il bavaglio all'informazione. Alla Camera è, infatti, in discussione il disegno di legge sulla diffamazione che rischia di paralizzare la professione giornalistica. Con la scusa di cancellare il carcere per i giornalisti (una norma impensabile in qualsiasi paese democratico), la nuova legge aumenta a dismisura le multe (fino a 50mila euro), accresce pericolosamente la responsabilità dei direttori per omesso controllo e introduce il meccanismo della rettifica immediata, senza poterla verificare e senza il diritto di replica. Un gigantesco strumento di pressione che limiterà la libertà d'informazione, spingendo giornali, tv e web a non trattare perfino temi d'interesse pubblico nel timore di essere sanzionati. D'altronde, non è una novità mettere limiti alla libertà d'espressione. Lo stesso Ordine dei giornalisti ha varato dei protocolli deontologici, in cui sono espressamente vietati nella stesura di articoli o servizi dei vocaboli di uso comune. Come ad esempio «clandestino», che sui media deve essere definito «migrante irregolare», oppure «zingaro» o «rom» perché secondo il buonismo imperante sono parole offensive e discriminatorie. Eppure sono termini presenti in tutti i vocabolari della lingua italiana. Anche questi sono offensivi e discriminatori? Non sarebbe una sorpresa, visto l'andazzo, se un domani la nostra classe politica decidesse di cancellare certi termini pure dai dizionari.
Insomma, mentre in Occidente i giornalisti muoiono per aver difeso il proprio diritto a informare, in Italia l'unico pensiero è di sanzionarli se vogliono esercitare liberamente questo diritto.
«La nostra libertà dipende dalla libertà di stampa, ed essa non può essere limitata senza che vada perduta», scriveva Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti e fautore dello Stato laico e liberale. Ma noi viviamo davvero in un Paese libero?
Il ddl sulla diffamazione approvato al Senato e ora in discussione alla Camera sostituisce il carcere con una sanzione pecuniaria. La multa va dai 10mila ai 50mila euro
La nuova norma cancella anche il diritto di replica da parte dei giornalisti alle note di rettifica.
Le precisazioni dovranno essere pubblicate entro due giorni dalla ricezioneLa nuova legge, pur togliendo il carcere, è molto dura con il giornalista che abbia più di una condanna. In caso di recidiva reiterata scatta anche l'interdizione da uno a sei mesi
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