Valeria Robecco
New York La caccia alla guida della diplomazia americana è una strada più che mai in salita. Mentre l'ex neurochirurgo Ben Carson si è aggiudicato il ministero dello Sviluppo edilizio, la sfida per la conquista del dipartimento di Stato è ancora apertissima, e come confermato dalla portavoce di Donald Trump, Kellyanne Conway, si è arricchita di nuovi nomi. Il presidente «ha ampliato la ricerca», ha spiegato Conway, ribadendo che «la posizione è una casella incredibilmente importante da riempire per ogni commander in chief. Lui continua a parlare con diverse persone, e in settimana avremo ulteriori incontri». Oltre ai papabili - l'ex sindaco di New York Rudy Giuliani, l'ex governatore del Massachusetts Mitt Romney, l'ex generale e capo della Cia David Petraeus e il senatore Bob Corker - sono spuntati due nomi di peso. Uno che guarda alla Cina, con cui i rapporti sono sempre più tesi, e l'altro alla Russia. Il transition team di Trump sta valutando la candidatura di John Huntsman, 56enne ex ambasciatore a Pechino e profondo conoscitore del mandarino, che oltre all'esperienza diplomatica è stato anche governatore dello Utah e candidato alle primarie repubblicane 2012. L'altro nome è quello di Rex Tillerson, numero uno del colosso energetico Exxon, in ottimi rapporti con Vladimir Putin, e che più volte ha espresso contrarietà alle sanzioni contro Mosca. Negli ultimi giorni sono poi calate le quotazioni di Romney vista la dura opposizione degli elettori del tycoon, che lo considerano un traditore per aver criticato Trump durante la campagna. È stato premiato invece Ben Carson, ex rivale di Trump alle primarie e tra i suoi sostenitori della prima ora, che il miliardario ha voluto in squadra.
Continua il braccio di ferro con la Cina dopo le polemiche sulla telefonata con la presidente di Taiwan. Ancora una volta Trump ha scelto Twitter per replicare alle critiche di Pechino: «La Cina ci ha mai chiesto se andava bene svalutare la loro valuta (rendendo difficile per le nostre imprese competere), tassare i nostri prodotti che entrano nel loro Paese (mentre gli Usa non tassano i loro), o costruire un massiccio sistema militare nel mezzo del Mar della Cina del Sud? Non penso proprio!». Le sue parole hanno suscitato scalpore e in diversi hanno accusato Trump di abusare nell'uso dei social media, a cui il miliardario newyorkese ha ribattuto immediatamente con un altro cinguettio: «Se la stampa mi coprisse in maniera accurata e dignitosa avrei meno ragioni per twittare. Purtroppo non so se questo accadrà mai!».
E proprio sulla telefonata con Taiwan il Washington Post, citando fonti dell'entourage del tycoon, ha rivelato che non si è trattato di un'ingenuità da principiante, ma di una «mossa intenzionalmente provocatoria«, «prodotto di mesi di riflessioni e preparazione» tra i suoi consiglieri.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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