Ogni volta che sento qualche straniero, più o meno famoso, dire la sua su Venezia (l'ultimo in ordine di tempo è Elton John, inerpicatosi in un'astrusa polemica gender con il sindaco Brugnaro), il mio pensiero reverente va al conte Giovanni Volpi, il figlio di quel Volpi di Misurata che si inventò il Festival del cinema. Una decina di anni fa, lo scrittore americano John Berendt decise di intervistarlo e ne riportò il pensiero nel suo The City of falling Angels , un libro che era tutto un lamento e una denuncia della Serenissima in rovina, dal rogo della Fenice alle lotte di potere fra le varie organizzazioni internazionali di beneficenza, dalla corruzione politica alla rapacità di pubblici esercenti e privati cittadini, dal rarefarsi della popolazione al moltiplicarsi degli alberghi di lusso e del turismo fai da te. Volpi, che è un uomo scontroso e solitario, stette pazientemente ad ascoltare il grido di dolore di Berendt, la sua nobile ansia di «salvare» Venezia, e poi gli disse: «Non capisco perché gli americani non possano venire a Venezia e divertirsi invece di venire e battersi il petto. Voglio dire, questa idea di essere come in missione... Perché debbono venire a Venezia per salvarla? Naturalmente, è una cosa gentile il fatto che diano dei soldi, ma non ha niente a che vedere con la generosità. È solo un voler sentirsi importanti. E, in realtà, poi non è altro che una goccia nell'oceano. Dovrebbero venire e rilassarsi. Passeggiare. Vedere qualche quadro. Andare in qualche ristorante, come si fa nelle altre città. Gli americani non vanno a Parigi per salvare Parigi, giusto? Quando vedi un cinquecentesco palazzo veneziano, è possibile che sia malandato e magari anche in pericolo, ma non puoi descriverlo come in sfacelo. È lì da cinquecento anni! La Venezia in sfacelo è un grande mito. È questo ciò che penso riguardo a Save Venice. Dimenticate Venezia, si salverà da sola. Andate a salvare Parigi».
Già, la salvezza di Venezia è Venezia stessa. Persino il ponte di Calatrava e l'albergo al cubo che gli hanno costruito a fianco non ne avranno ragione, finiranno nel tempo inghiottiti e rimodellati. La modernità, con i suoi riti e con i suoi miti è ancora qualcosa da cui Venezia è al riparo. Nessun architetto, per quanto si impegni, riuscirà veramente a scempiarla, nessun assessore a renderla più competitiva, nessun politico a derubarla della sua unicità. Per chi vive proiettato nel futuro è magari un incubo, a me che del futuro non importa nulla suona come una confortante certezza. Sempre e dovunque i luoghi che hai amato non li riconosci più e non perché sei tu a essere cambiato. È che ci hanno rimesso le mani. Insensibilmente ci inoltriamo in un domani senza estetica e ormai non capiamo più la magia del superfluo e dell'inutile, vogliamo i costi eguali ai benefici, le città amministrate come un condominio. A Venezia invece non c'è futuro, o meglio, nessun desiderio di futuro ti sembra all'altezza di ciò che il passato ti ha comunque dato. Nelle Memorie d'oltretomba Chateaubriand l'aveva già capito: «I resti di una società antica che produsse tali cose, riempiendovi di disgusto per una società nuova, non vi lasciano alcun desiderio di futuro. Amate sentirvi morire con tutto ciò che muore intorno a voi; vi curate soltanto di rivestire con eleganza ciò che rimane della vostra vita via via che si spoglia». C'è chi si illude di sfuggire al tempo correndogli davanti. Senza illusioni preferisco naufragarvi dentro.
Quando i «salvatori» di Venezia saranno passati a miglior vita, Venezia sarà ancora lì, splendida e stupefacente, come lo stare all'ancora nel porto delle meraviglie, l'idea di un'assoluta libertà,
come se ogni mattina tu potessi alzare le vele e andartene dove vuoi portandoti dietro la bellezza del mondo. Ha ragione il conte Volpi: andate a salvare Parigi, e anche New York, già che ci siete, e non rompeteci le palle.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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