La fuga, le balle, i silenzi, i morti ammazzati raccontati quasi con nonchalance: «Quello per me era un poliziotto e pure lui dovevo sdraiare». Eccolo qua, Igor il Russo: l'uomo che nella primavera del 2017 fece impazzire i carabinieri a cercarlo nelle campagne a est di Bologna dove aveva seminato la morte. Lo cercarono in ogni dove, nei canneti e nelle paludi, con gli elicotteri e i cani molecolari. Lui invece era già via, in quella fuga che ieri descrive con dovizia di particolari: in bicicletta fino ad Alessandria, qui pausa da un amico per recuperare un computer, poi via di nuovo verso Cuneo e la frontiera con la Francia. E poi i Pirenei, Andorra, la Spagna «dove ho vissuto a lungo e dove ho tanti amici».
Chi è l'amico di Alessandria e chi siano gli amici spagnoli non lo dice, perché Igor non tradisce, fedele fino all'ultimo al clichè del criminale orgoglioso di esserlo. Nulla da perdere, d'altronde. Qui lo aspettano due ergastoli, per la uccisione del barista Fabbri a Budrio e per quello della guardia Verri sette giorni dopo. Ma prima di scontare gli ergastoli in Italia dovrà chiudere il suo conto con la Spagna, dove prima di essere catturato ha ucciso un contadino e due guardie civili, vittime indirette della religiosità dell'assassino: «Dopo avere sparato al contadino sono dovuto tornare indietro perché avevo dimenticato la Bibbia e ho incrociato i due poliziotti».
In videoconferenza dal carcere di Saragozza, seduto a un tavolo, le manette strette ai polsi per tutta l'udienza, Igor mischia verità e menzogne secondo un disegno tutto suo, imperscrutabile ma sicuramente lucido e preciso. Mente quando dice che l'irruzione nel bar di Budrio non doveva essere una rapina ma un recupero crediti: «Era successo che un mio amico di Ferrara avanzava dei soldi da questo barista, diecimila euro, mi aveva incaricato di recuperarli. In cambio avrei avuto mille euro e un po' di armi»; e solo l'accenno di reazione di Fabbri avrebbe causato la sua morte, «dovevo schiacciare tutto quello che avevo davanti, mi sono sentito minacciato allora ho tirato fuori la seconda arma e l'ho seccato». Bugie, spiega la vedova di Fabbri, «economicamente stavamo bene, e mio marito non doveva niente a nessuno»: e d'altronde telecamere e testimoni smentiscono la versione di Igor.
Più sincero, al limite del cinismo, è quando racconta dell'uccisione di Valerio Verri, la guardia provinciale che la sera dell'8 aprile insieme al suo collega Marco Ravaglia lo incrocia vicino Portomaggiore: «Ho sparato a Ravaglia perché aveva una pistola in mano. Poi ho sparato a Verri senza guardare se era armato perché per me era un poliziotto pure lui e dovevo sdraiare tutti e due». La ricostruzione è esatta ma incompleta: perché Marco Ravaglia, il sopravvissuto, racconta che «eravamo a terra, ci sparava e intanto ci gridava bastardi».
È un processo doveroso ma quasi virtuale, questo che si celebra in effige a Bologna a Igor Vaclavic alias Norbert Feher: perché la pena che lo attende prima in Spagna sarà quasi di sicuro la prison permanente revisable, la pena massima del codice spagnolo, che (soprattutto se ammazzi dei poliziotti) assomiglia molto all'ergastolo. Ma anche se prima o poi dovesse essere portato in Italia, Igor ha già fatto sapere che non aprirà bocca davanti alle uniche domande davvero importanti a questo punto, quelle sulla rete di complicità che lo ha accompagnato prima e dopo le imprese dell'estate del 2017.
Lo Stato, come è noto, fece la sua parte nel modo peggiore possibile, dimenticandosi di espellere il serbo dall'Italia dopo la sua scarcerazione nel 2015: e lui si rimise subito al lavoro, rapine su rapine. Alcuni complici sono noti, e sono già stati arrestati e condannati.
Ma quelli dell'ultima fase, quelli che lo ospitano durante la caccia all'uomo dell'estate di due anni fa, e lo aiutano a pedalare via verso la Spagna, ancora non hanno volto. Ieri Igor manda loro un messaggio preciso: «Potete stare tranquilli».
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