Indipendentisti ma non troppo. Imbarazzo nella Lega "padana"

Da una parte la linea "nazionale" di Salvini, dall'altra i nostalgici della secessione. In gioco gli equilibri interni

Indipendentisti ma non troppo. Imbarazzo nella Lega "padana"

Dalla parte degli indipendentisti catalani, ma non troppo. Che non sia più la vecchia Lega «per l'indipendenza della Padania» (anche se resta l'art. 1 dello statuto del Carroccio, almeno per ora) si vede dalla reazione del quartier generale di Salvini al referendum in Catalogna. Certo, c'è la condanna del governo spagnolo «che manda a manganellare cittadini inermi che vogliono votare, una cosa che neanche nell'Unione Sovietica o nella peggior Turchia si sarebbe mai vista» dice Matteo Salvini. Che aggiunge però tutta una serie di distinguo. «Si può essere d'accordo o meno con un referendum convocato senza rispettare le regole», prende le distanze il segretario federale. «Noi abbiamo fatto una scelta diversa il 22 ottobre in Lombardia e Veneto», il nostro è «un referendum legittimo riconosciuto anche dallo Stato», non come quello catalano non riconosciuto da Madrid, dunque illegittimo. E poi si tratta di votare «per gestire meglio le scuole, le strade, i treni, gli ospedali, non per la secessione», parola ormai tabù.

Grande prudenza, su un tema che dovrebbe incendiare gli animi nella Lega, che ha sempre sventolato le bandiere degli altri indipendentisti europei dagli scozzesi ai catalani. E che si può spiegare in due modi. Primo, il timore che le immagini della Guardia Civil che malmena donne e anziani possano spaventare gli elettori lombardo-veneti e indurli a restare a casa il 22 ottobre, anche se paragonare i due referendum non ha senso. Per questo anche il governatore veneto Luca Zaia ci tiene a rimarcare la differenza, la consultazione referendaria in Veneto e Lombardia «è rispettosa della legge ed in linea con la Costituzione». Insomma votate tranquilli, nessun rischio di cariche della polizia italiana.

Ma c'è un secondo motivo per la prudenza di Salvini, ed è tutto politico. Innanzitutto la linea sovranista-nazionalista della sua Lega, che manda in soffitta il partito nordista del passato incompatibile con le aspirazioni di leadership (e premiership) nazionale del segretario, presente al Sud col movimento «Noi con Salvini» (mentre la parola Nord potrebbe presto sparire dal simbolo della Lega). Poi, c'è da salvaguardare l'asse con la Meloni, che sulla vicenda catalana si è schierata con la polizia spagnola: «Non mi appassionano le spinte indipendentiste, la Patria è l'ultimo argine rimasto alla deriva mondialista» ha scritto su Facebook la leader Fdi. Un post, però, che ha scatenato l'ira di molti leghisti («Si allei con i franchisti spagnoli, non con la Lega» attacca l'assessore lombardo Gianni Fava), a riprova che nel Carroccio convivono due linee politiche.

Quella, largamente maggioritaria all'ultimo congresso, di Salvini, più defilata sulla Catalogna. E l'altra indipendentista, mai sopita e risvegliata con potenza dalla battaglia di Barcellona. Basta vedere quanti leghisti sui social con la bandiera a strisce gialle e rosse, soprattutto tra i Giovani Padani, presenti a Barcellona con una delegazione. Oltre a loro, nella città catalana c'era l'intramontabile Mario Borghezio, e poi il vicepresidente del consiglio lombardo, Fabrizio Cecchetti. Ma nessuno dei vertici di via Bellerio. A Milano, poi, un sit-in di protesta davanti al consolato spagnolo, capeggiato dal segretario della Lega Lombarda Paolo Grimoldi, considerato meno allineato su Salvini, più vicino a Maroni.

Proprio la rivalità tra Salvini e il governatore lombardo (che sulla Catalogna si è espresso con toni molti diversi: «È la fine della Spagna») è un'altra chiave di lettura. Cavalcare l'onda catalana porterebbe acqua al mulino dei referendum del 22 ottobre. E un successo del voto sull'autonomia sarebbe una vittoria dei due governatori, più che di Salvini.

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