Milano Il vecchio agente della polizia penitenziaria guarda in alto, verso gli ultimi detenuti accampati sul tetto del quinto raggio, e scrolla la testa: «Ma come fanno a non capire che il blocco dei colloqui serve a proteggere proprio loro... In carcere il virus non c'è, noi guardie veniamo controllate ogni giorno, il vero pericolo sono i parenti in visita. E se scoppia l'epidemia in carcere è un disastro».
Ma non c'è niente da fare: in un Paese dove le reazioni irrazionali si sprecano, le carceri non potevano essere da meno. E da un capo all'altro della Penisola parte un'ondata di proteste, rivolte, devastazioni. La scintilla che fa scattare tutto è la norma che sospende i colloqui con i parenti. Ma su questo si innestano rivendicazioni che con il coronavirus non c'entrano niente: indulto, amnistia, misure contro il sovraffollamento (che esiste, ed è drammatico). Più in sintesi: «Vogliamo la libertà», come urlano dai tetti i rivoltosi.
Le prime avvisaglie si erano avute nel carcere di Salerno, prima ancora che il decreto venisse approvato. Poi, domenica pomeriggio, è partita la rivolta di Poggioreale, a Napoli, seguita da quella con le conseguenze più gravi, nel carcere di Modena dove i detenuti appiccano il fuoco a tutto quello che trovano: il risultato è che le celle vengono invase dal fumo, e alla fine si contano sette morti. Ieri mattina il tam tam porta in tutte le carceri italiane le notizie da Modena. E da quel momento è il caos. Da Reggio Calabria a Trani, da Prato alla Spezia, da Bologna a Rebibbia, i detenuti di 22 carceri rifiutano di rientrare dall'ora d'aria, si impadroniscono dei reparti, salgono sui teti. A San Vittore i primi a ribellarsi sono i giovani reclusi del reparto più avanzato, la «Nave», al terzo raggio, dove si lavora per il recupero dei tossicodipendenti: la protesta però dilaga immediatamente, sia il terzo che il quinto raggio - che erano stati ristrutturati di recente - vengono sistematicamente devastati, i caloriferi divelti dai muri, distrutti gli ambulatori.
Scatta in tutta Italia l'allarme generale, sulle carceri convergono reparti della Celere e dei carabinieri in tenuta antisommossa, mentre anche la polizia penitenziaria si rifornisce di scudi e manganelli. In alcuni istituti, come Rieti, si decide di fare irruzione prima che la situazione scappi definitivamente di mano: invano, il carcere resta in mano ai rivoltosi. Ma la linea guida è quella della trattativa.
A San Vittore entra il pm Alberto Nobili, capo del pool antiterrorismo, col collega Gaetano Ruta, e dialoga con i portavoce della protesta, cinque per ogni raggio: si sente chiedere provvedimenti che non dipendono da lui, lavoro esterno, arresti domiciliari per tutti, affidamenti in prova. Mette come condizione il rientro delle violenze, dà appuntamento ai leader della protesta per oggi alle 12,30. Ma, soprattutto, ha la conferma che i colloqui e il coronavirus sono stati solo un pretesto iniziale: «Noi i colloqui non li vogliamo, sappiamo che in questo momento sono un pericolo», gli dice anzi un detenuto.
Alle 17, con il rientro degli ultimi irriducibili, San Vittore torna alla calma. Ma in altre carceri la situazione è ben peggiore: alle 20 a Melfi quattro agenti sono ancora ostaggio dei detenuti di massima sicurezza, a Modena due sezioni sono ancora in mano agli insorti. Erano decenni che le carceri italiane non venivano investite in contemporanea da una simile ondata di rivolte: tanto che uno dei sindacati della polizie penitenziaria ipotizza che una regia unica da parte della criminalità organizzata.
Di certo c'è che a soffiare sul fuoco ci sono anche i centri sociali dell'area antagonista, che ieri si sono precipitati
sotto le mura di San Vittore insieme a parenti di detenuti, invitando a proseguire la protesta, annunciando che altre carceri si stavano ammutinando e che una serie di concessioni erano già state ottenute. Ma non era vero.
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