Ingiusta detenzione a Sallusti. Strasburgo condanna l'Italia

La sentenza della Corte europea dei diritti: la sanzione poteva avere effetti spaventosi. Risarcito di 12mila euro

Ingiusta detenzione a Sallusti. Strasburgo condanna l'Italia

Cara Italia, i giornalisti non si arrestano. Neanche se si chiamano Alessandro Sallusti e se a sentirsi diffamato è un magistrato. Sabato 1° dicembre 2012 il direttore del Giornale venne prelevato in redazione dalla Digos su ordine della Procura di Milano, portato in questura, fotosegnalato, sottoposto alle impronte digitali, e infine e portato agli arresti domiciliari: vi rimase ventuno giorni, fino a quando venne graziato dal presidente della Repubblica. Ora Sallusti per quella detenzione verrà risarcito con 12mila euro, con una sentenza della Corte europea dei diritti dell'Uomo che segna un punto senza ritorno nelle battaglie per la libertà di stampa.

«In questo caso non c'era alcuna giustificazione - si legge nella sentenza depositata ieri, dopo sei anni dal ricorso - per condannare a una pena detentiva». I giudici di Strasburgo, presieduti dal greco Linos-Alexandre Sicilianos, ricordano come più volte, in passato, la Corte avesse indicato gli unici, pochi casi in cui la legge sulla stampa può imporre il carcere: i discorsi d'odio, l'incitamento alla violenza. Nulla di questo era contenuto nell'articolo pubblicato su Libero (all'epoca diretto da Sallusti) e querelato dal giudice Giuseppe Cocilovo. Eppure Sallusti, che l'articolo nemmeno l'aveva scritto, venne condannato a un anno e due mesi di carcere. La Cassazione confermò, e la Procura ordinò il suo arresto.

«Una simile sanzione - scrive ora la Corte dei diritti dell'uomo - per sua stessa natura è destinata ad avere effetti spaventosi». Dopo avere analizzato meticolosamente il caso, i giudici europei affermano senza giri di parole che «la sanzione penale imposta al ricorrente - cioè a Sallusti - era manifestamente sproporzionata, nella sua natura e nella sua severità, ai legittimi scopi invocati da essa». La tutela della reputazione, ricordano i giudici, è un bene primario, e va tutelata; ma anche il diritto di informazione lo è. E già in passato la Corte aveva stabilito che un risarcimento pecuniario è una sanzione sufficiente.

L'Italia, ricordano i giudici di Strasburgo, è recidiva. Dopo che Maurizio Belpietro, allora direttore del Giornale, aveva visto accogliere un suo ricorso, dal nostro governo era stato garantito alla Corte che il Parlamento italiano stava lavorando ad una nuova e più equilibrata legge sui reati a mezzo stampa, già all'esame della Commissione Giustizia; e la sentenza ricorda come Giorgio Napolitano, allora capo dello Stato, nel provvedimento che commutava in una multa la condanna di Sallusti avesse indicato «l'esigenza di pervenire a una disciplina più equilibrata ed efficace dei reati di diffamazione». Ma di quella legge non si è più saputo niente.

Eppure, davanti al ricorso presentato da Sallusti attraverso il suo legale Valentina Ramella, il governo italiano si è ripetutamente schierato in difesa della sentenza che condannava il giornalista al carcere. Per due volte, a gennaio e aprile del 2017 (premier Paolo Gentiloni) gli avvocati del governo hanno cercato di convincere la Corte europea che sbattere in galera un direttore per un articolo pubblicato sul suo giornale sia cosa buona e giusta. Non ci sono riusciti.

E la sentenza del caso 22350/13, Sallusti versus Italy, diventa ora un caposaldo di cui dovranno tenere conto i giudici che nel frattempo, da un capo all'altro del Paese, hanno continuato a punire con la galera dei reati d'opinione.

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