«Cesare Brandi diceva: il com'era dov'era è un insulto all'estetica e un oltraggio alla storia. Ma io non sono d'accordo». Elisabetta Fabbri è l'architetto che ha diretto i lavori per la ricostruzione del teatro La Fenice di Venezia, distrutto da un incendio il 29 gennaio 1996 e riaperto nel dicembre 2003. Il progetto era del grande Aldo Rossi, che però nel frattempo era morto in un incidente automobilistico, e fu lei a guidare il team che dovette ridare a Venezia il suo teatro. È con lei che parliamo della sfida di ricostruire un'icona architettonica. A partire dalla frase provocatoria dello storico dell'arte e teorico del restauro sul senso della replica pedissequa. «Quando bruciò la Fenice ci chiedemmo: che cosa è andato distrutto e che cosa si è salvato? E che cosa si perde con la Fenice?».
E quali furono le risposte?
«Nel caso del teatro veneziano era crollato il tetto ligneo, come a Notre-Dame. Ma non si trattava di una ricostruzione dal nulla. E poi c'era il valore acustico della sala, che l'aveva fatta diventare il teatro delle prime. Sul muro si vedevano le impronte delle travi di legno. Questo significava poter ricostruire la volumetria che costruisce l'acustica, con legno massiccio, carta pesta, legno intagliato, gesso intagliato. In questo senso fummo filologici, la decorazione era un dettaglio».
Un discorso che si può applicare anche a Notre-Dame, che non è un teatro?
«Certo che ha un senso ricostruire la cattedrale com'era dov'era. Le strutture ecclesiastiche alla fine sono dei grandi volumi vuoti, ma Notre-Dame ha slancio, è la forma straordinaria della sua geometria che va ricostruita. Essendo in corso dei lavori di restauro mi viene facile pensare che ci sia tutta la documentazione, ormai si parte sempre dal rilievo dell'esistente».
Ma ha senso ricostruire tutto esattamente com'era?
«Nel restauro filologico se vedi una cosa brutta la rifai brutta, non provi a correggerla. Nel caso della Fenice la nostra filosofia è stata: ti vedo, ti capisco e ti rifaccio. Ma non so se questa è la posizione più giusta, forse qualche libertà alle volte è necessaria. Le faccio un esempio: alla Fenice nell'ordine più in basso le applique ostacolavano la vista e qualche anno dopo la riapertura furono eliminate. Se non fossimo stati così accanitamente filologici, questa esigenza l'avremmo potuta anticipare».
Quindi alla fine conta soprattutto l'obiettivo finale?
«Da questo punto la committenza è fondamentale, che sappia quello che vuole. Poi certo si può far diventare una tragedia un'opportunità. Nel momento in cui intervieni cerchi di migliorare per far diventare tutto più funzionale, più efficiente a livello energetico, più accessibile».
Parliamo di materiali. È sempre possibile reperire quelli originali? E ha senso?
«Non esiste una regola base. Nel caso della Fenice ci fu proibito l'uso del legno lamellare che ci venne consentito al Petruzzelli di Bari. Non è il materiale in sé che squalifica l'intervento, conta molto la sensibilità del progettista. La regola dice che il materiale deve essere compatibile e l'intervento reversibile e distinguibile».
Si usano le tecniche antiche o ci si fa aiutare dalla
tecnologia?«Anche qui dipende caso per caso, ma il cantiere non è mai un'industria. Spesso utilizzi la tecnologia per accelerare certi processi ma la finitura è sempre della mano sapiente che conosce le tecniche antiche».
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