"Io torturato per confessare ma ero innocente"

Pasquale Virgilio fu accusato di omicidio, a salvarlo una lettera del papà dell'ex sindaco Pisapia

"Io torturato  per confessare ma ero innocente"

Milano - Doveva essere una rievocazione - a metà tra la fiction e la didattica, dedicata ai giovani avvocati milanesi - di uno dei processi che hanno fatto la storia della giustizia sotto la Madonnina. Invece mercoledì, la serata organizzata dalla Camera penale cittadina è iniziata da poco, si alza dalla platea un signore smilzo con la camicia rosa e dice: «Buonasera, sono Pasquale Virgilio». Fu lui, cinquant'anni fa, il protagonista di quel caso. Fa irruzione in carne, ossa, ricordi e rabbia - una rabbia lucida ed indomita - nel convegno. Ed è uno choc. Perché non si limita a raccontare di come venne accusato ingiustamente. Racconta, nei dettagli e con crudezza, come venne torturato. Non nello scantinato di una caserma di periferia ma all'interno del tribunale di Milano, il tempio laico al cui ingresso sta scritto Iustitia.

Di Giandomenico Pisapia, il grande professore che col suo intervento lo salvò dall'ergastolo, parla con freddezza: «Perché hanno creduto a lui e non a me? E gli altri, quelli che non hanno un Pisapia a salvarli, come fanno?». Nel suo racconto, la giustizia di quegli anni è un tunnel degli orrori. Orrori che si compiono a pochi metri dagli uffici dei giudici; davanti alle loro conseguenze, i giudici chiudono gli occhi.

«I carabinieri - racconta Virgilio - mi vennero a prendere a casa e mi portarono a palazzo di giustizia. Prima sotto, poi sopra»: cioè negli uffici del quarto piano, che ora sono occupati dalla Procura della Repubblica. Virgilio era in divisa, perché stava facendo la naja. «Mi fecero sdraiare sui tavoli, mi tolsero gli anfibi e i calzettoni, poi presero le scope e iniziarono a colpirmi sotto le piante dei piedi. Picchiavano così forte che anche in carcere per molto tempo non riuscivo a camminare».

Le botte avevano un obiettivo: farlo «cantare», confessare di essere lui l'assassino del benzinaio di piazzale Lotto. Ma Virgilio, che non era una mammola («vivevo di espedienti», definisce laconicamente la sua vita di allora) non confessa, per il semplice motivo che è innocente. Allora arriva il grado successivo: «I flash delle macchine fotografiche erano grandi e grossi, si ricaricavano con le batterie. Allora prendono i fili e me li legano, diciamo, nelle parti delicate». E iniziano le scosse. Virgilio avrà urlato. Ma nessuno, a Palazzo di giustizia, sembra sentire le sue urla.

Però non confessa. E alla corrente si aggiungono i sacchetti con cui viene colpito ripetutamente. «Stavano attenti a colpire nei posti giusti». Poi forse sbagliano, e gli spaccano le gengive e i denti. E lui niente. Alla fine gli fanno firmare il verbale di interrogatorio. In seguito, tra il testo e la sua firma, aggiungono due righe con la confessione. Quando il pm Pasquale Carcasio, qualche giorno dopo, lo interroga, i segni delle botte sono inequivocabili. «Ma lui mi disse: eh, sarà caduto dalle scale....».

Il trattamento riservato a Virgilio risale ad un'altra epoca, in cui i primi interrogatori potevano svolgersi senza avvocato: ma il suo racconto arriva nel pieno dell'iter parlamentare, segnato da rigidità ed estremismi contrapposti, della legge sulla tortura; e costringe a fare domande - che restano senza risposta - su quali coperture

fossero necessarie perché violenze del genere accadessero impunemente. Tanto che se si chiede a Virgilio perché non sporse denuncia, alza il sopracciglio brizzolato: «Sì, così mi prendevo anche una condanna per calunnia».

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