Da cinque anni, ogni giorno, mette in Rete un video, ogni giorno offre al mondo la prova delle violenze che le donne iraniane sono costrette a subire se si ribellano alla legge del velo obbligatorio. Insultate per strada, strattonate, denunciate e messe in prigione, fino a due mesi, perché così prevede la sharia, ma spesso anche di più, come quando si viene accusate di prostituzione per aver rimosso l'hijab. Per questo ora Masih Alinejad, 42 anni, giornalista iraniana che dal 2009 vive in esilio tra New York e Londra, un casco di capelli ricci e ribelli come simbolo della sua lotta contro l'oppressione di Teheran sulle donne, è diventata protagonista della battaglia degli ayatollah contro la trasgressione dei capelli al vento. «Chiunque si filmi oppure filmi qualcun altro mentre sta togliendo l'hijab e mandi foto a questa donna sarà punito con una condanna da uno a dieci anni di prigione». Lo ha stabilito il capo della Corte rivoluzionaria di Teheran, citato dall'agenzia iraniana Fars. Un modo per ricordare alle donne iraniane le restrizioni imposte sul loro abbigliamento dopo la Rivoluzione islamica del 1979: coprire i capelli e il corpo in pubblico ed evitare abiti attillati.
Non piacciono al regime i gesti di ribellione pubblicati su «My Stealthy Freedom», la pagina Facebook da oltre un milione di follower fondata da Masih, che dal 2015 punta i riflettori sui diritti più basilari negati alle donne nella Repubblica islamica, spesso senza che ci sia necessariamente una norma scritta, come il divieto di andare in bicicletta o quello di truccarsi e smaltarsi le unghie. Nel maggio 2017 Masih ha lanciato i «White Wednesday», una campagna con cui incoraggia le donne a togliere il velo il mercoledì o mostrare uno scialle bianco in segno di protesta. Così fece la giovane iraniana Vida Movahed, quando a fine 2017 sventolò in Piazza Enghelab un velo bianco, per poi finire in prigione ed essere rilasciata un mese dopo, diventando un'icona nella lotta per i diritti delle donne nei Paesi islamici più opprimenti come l'Iran, dove proprio in queste ore l'ex sindaco di Teheran, Mohammad Ali Najafi è stato condannato a morte per l'omicidio della moglie Mitra Ostad.
Sono in carcere da marzo, senza possibilità di consultare un avvocato, accusate di «corruzione e prostituzione» tre attiviste iraniane non velate, che nel giorno della Festa delle Donne avevano girato un video in metropolitana, poi diventato virale, distribuendo fiori come atto di protesta pacifica contro l'obbligo di indossare l'hijab. E a inizio anno, l'avvocata Nasrin Sotoudeh è stata condannata a 38 anni e 148 frustate per aver difeso le donne che protestavano contro l'imposizione.
«La mia telecamera è la mia arma - #MyCameraIsMyWeapon - è uno degli slogan di Masih su Twitter. Per portare fino in fondo la sua battaglia, Masih a inizio anno ha incontrato anche il segretario di Stato americano Mike Pompeo, che l'ha ringraziata «per il suo coraggio e la continua dedizione alla causa della libertà delle donne iraniane». Una circostanza che ha rafforzato la convinzione del regime di Teheran che Masih lavori segretamente al servizio dell'amministrazione americana.
La replica dell'attivista è arrivata con un filmato: «Non hanno paura di me ma hanno paura di noi. Gocce che stanno diventando un fiume.
Hanno paura che la gente non li tema più e si ribelli. Quando il capo della Corte rivoluzionaria dice che sono al servizio di uno Stato ostile, noi diciamo che nessun governo è stato mai così ostile con gli iraniani come l'attuale governo» di Teheran.
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