Iran, la morte di Armita fa poco rumore

La 16enne uccisa per un "no" al velo. Il regime rialza la testa grazie alla crisi internazionale

Iran, la morte di Armita fa poco rumore
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I capelli come un crimine. Da punire con le botte e seppellire con la morte, se si è avuto l'ardire di non coprirli. Armita è morta per questo a 16 anni, a Teheran, dopo 28 giorni di terapia intensiva. I capelli li aveva tagliati, corti all'occidentale, alle labbra aveva un piercing. Troppo audace per la Repubblica islamica dell'Iran, il regime che manda squadre di «poliziotti morali» a picchiare le ragazze se non indossano il velo, che le punisce fino a ucciderle. Armita Geravand è entrata senza hijab in metropolitana l'1 ottobre, per andare a scuola, con la sfacciataggine e voglia di ribellione dei suoi 16 anni. È stata trascinata incosciente, poco dopo, fuori dalla carrozza. «Nessun conflitto fisico o verbale», dicono le autorità. Eppure è finita in ospedale, in coma, e ieri è morta.

Era già successo a Mahsa Amini, un anno fa, deceduta a 22 anni dopo essere stata fermata dalla polizia morale di Teheran per una ciocca di capelli fuori posto. Il caso aveva dato vita alle più imponenti proteste contro il regime in molti decenni. Ora il copione si ripete. Fonti indipendenti riferiscono che dentro a quel vagone Armita è stata punita dalla «polizia morale» per il suo abbigliamento, perché non rispettava il codice imposto da un Paese in cui il diritto e la religione sono la stessa cosa, in cui la politica e l'islam radicale sono un tutt'uno.

Succede di nuovo, a un anno dal caso Mahsa. Con il solito carico di orrori, la madre arrestata, i parenti costretti a ripetere la versione del regime, è «stato un incidente», una caduta casuale. E con un nuovo carico di timori. Il mondo è sempre più preoccupato, e insieme anche distratto, dalla nuova guerra contro Israele provocata dai tagliagole islamisti di Hamas, foraggiati da Teheran. Il regime sta approfittando della crisi per rialzare la testa contro l'Occidente, aiutare economicamente e militarmente l'universo islamista, mentre continua feroce con la repressione degli oppositori all'interno.

Armita è morta e le autorità iraniane non vogliono concedere alla famiglia nemmeno la sepoltura a Kermanshah, ovest di Teheran, dove la ragazza era nata. Nessuna pietà per la ragazza e le volontà dei suoi cari, nemmeno da morta. È la linea di un Paese che considera gli Stati Uniti «il Grande Satana», che vuole la sparizione di Israele dalle mappe geografiche e foraggia i jihadisti anti-occidentali mentre aiuta sottobanco la Russia di Putin nella guerra all'Ucraina. I capelli scoperti di Armita erano una crimine. Perché la libertà è un crimine in Iran.

«Il sangue gocciola ancora dai foulard che ci avete sempre costretto a indossare nei film, nei bagni e in camera da letto», scrive l'attrice iraniana Taraneh Alidoosti, già finita agli arresti per una foto senza jihab e un cartello con slogan anti-regime «Donna, vita, libertà».

Alidoosti resiste, dopo la stretta sul cinema del regime, che vuole bandire le attrici senza velo e minaccia i produttori di non concedere permessi se ingaggeranno artiste senza hijab. «Non indosserò mai quel pezzo di stoffa che ha ucciso le mie sorelle», è la promessa dell'attrice.

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