Servirebbe la penna di Dickens, o quella di Zola, per raccontare in modo degno questo esercito di diseredati tristemente incasellati nelle serie statistiche. Per molti, solo una nota contabile: quella con cui l'Istat ci ricorda come due milioni di famiglie e 5,6 milioni di persone vivano in Italia nell'indigenza più nera. Lì, davvero, si fatica a mettere insieme il pranzo con la cena. Gente già povera prima, resa ancor più miserabile dal Covid - un cancro sanitario, ma pure socio-economico - e ora presa alla gola dall'inflazione. Bollette roventi, carrello della spesa mal riempito, tasche vuote: chi non ha, non ha difese contro i rincari. Li subisce, e scivola ancora più giù. Senza trovare consolazione alcuna nei «previsori» (sic) della Bce che ci assicurano come, a fine anno, l'aumento dei prezzi si sarà ridotto dal 5 e rotti all'1,8%.
Giusto ieri, col suo «Misery index» cresciuto ben di tre punti rispetto al 2019, Confcommercio sottolineava come la progressione del carovita abbia «vanificato i miglioramenti conseguiti sul fronte dell'occupazione». Che poi, magari, andrebbe fatta anche la tara su questi miglioramenti. Un Paese capace di crescere del 6,5% l'anno scorso non è riuscito a dare neppure una limatina agli oltre tre milioni di precari, quanti ne si contavano nell'anno di (dis)grazia 2020 contrappuntato dalla produzione infartuata causa clausure collettive. È economia basica: se non te ne liberi, il lavoro a tempo determinato ingenera incertezza, impedisce di programmare il futuro, espone all'indebitamento. Indebolisce l'intera nazione. Disoccupati a parte, di peggio c'è solo la condizione di chi ha lavoricchi part-time, quelli con cui una volta ti pagavi l'università o la discoteca. Una fase di transito esistenziale, perché allora l'ascensore sociale funzionava. Adesso, è fermo nel seminterrato.
E un motivo ci sarà. Come ricorda l'Ocse, non proprio un santuario di bolscevichi, l'Italia sconta da una vita una crescente divaricazione salariale rispetto agli altri Paesi europei. Mentre da noi le buste paga si sono alleggerite del tre per cento negli ultimi 30 anni, in Germania sono salite del 34% e in Francia del 31%. Si dirà: Berlino e Parigi possono permetterselo. Giusto, anche se l'euro avrebbe dovuto accorciare le distanze anziché esercitare un'azione di decoupling. Giusto, anche se la Spagna, più simile a noi, ha registrato incrementi retributivi del 6%. Con stipendi così compressi e a causa del carovita arroventato, è facile che si intensifichino le rivendicazioni salariali, come già successo in Germania.
Un vero «babau» per la Bce, convinta che gli aumenti di stipendio siano innesco di altri focolai d'inflazione. Nè più ne meno ciò che si rimproverava alla scala mobile, messa fuori servizio nel '92 da gente come il Nobel Franco Modigliani e anche dallo stesso Pci. Ma quella era un'altra Italia. Di sicuro meno povera.
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