Forse solo l'età molto avanzata - è scomparso ieri a 96 anni - aveva risparmiato in ottobre all'ex numero uno cinese Jiang Zemin l'umiliazione toccata al suo successore Hu Jintao al Congresso del partito comunista. Hu, figura di riferimento di quei cosiddetti centristi favorevoli a un ruolo meno dominante dello Stato in economia e a caute aperture alle riforme politiche, era stato portato fuori dalla sala con la scusa di un malessere da due commessi prima che potesse prendere la parola: doveva esser chiaro a tutti che l'onnipotente Partito stava incoronando, in Xi Jinping, un nuovo monarca assoluto. Jiang, ormai troppo debole per uscire di casa, avrà forse assistito alla scena umiliante in televisione, e avrà capito che il tempo di quelli come loro eredi della linea post maoista di Deng Xiaoping - era finito con la dialettica interna al PCC.
Oggi è appunto il tempo di Xi, dell'imperatore rosso che ha fatto cambiare la Costituzione (proprio come Vladimir Putin in Russia) per poter rimanere al potere a vita, che ha lanciato la Cina nella competizione mondiale con il rivale statunitense, e non solo sul piano economico: proprio ieri, il rapporto annuale del Pentagono ha indicato in Pechino «la sfida sistemica più significativa per la sicurezza nazionale». I generali americani prendono atto con allarme delle «sempre più chiare ambizioni» della dirigenza cinese in ambito militare e del suo obiettivo di estendere a dismisura l'influenza del Dragone.
Ai tempi di Jiang Zemin, che fu segretario generale del partito comunista dal 1989 e presidente della Cina nel decennio 1993-2003, le cose erano molto diverse. Jiang era stato un uomo di Deng, che aveva di fatto raccolto il bastone del comando dopo la scomparsa del mitizzato fondatore della Repubblica popolare Mao Zedong nel 1976. Deng aveva introdotto riforme economiche di portata storica, e Jiang continuò a gestire quella commistione di Stato assoluto e capitalismo privato che trasformò in breve tempo la poverissima Cina nella «fabbrica del mondo», permettendo il sorgere di un'élite di ricchi capitalisti e di una sempre più vasta classe media benestante.
Jiang tenne il timone in tempi difficili per il potere comunista, gli anni in cui la svolta di Gorbaciov aveva portato al collasso dell'Unione Sovietica e anche in Cina molti speravano nella caduta della dittatura rossa. Guidò da controllore delle forze armate la delicata fase successiva alla rivolta di Tienanmen, senza eccessi di protagonismi personali e continuando a tenere buoni rapporti con l'Occidente e a estendere gli spazi del capitalismo controllato dallo Stato: il risultato più importante fu, nel 2001, l'ingresso di Pechino nell'Organizzazione mondiale del commercio. Molti leader occidentali, primo fra tutti l'allora presidente americano Bill Clinton, si illusero che la Cina avrebbe abbracciato la democrazia in conseguenza delle sue riforme economiche: il che non è mai avvenuto, mentre abbiamo invece assistito all'impiego dell'immensa ricchezza ottenuta per vie capitalistiche per finanziare la crescita di una superpotenza senza libertà che oggi minaccia i nostri stessi valori.
Simbolicamente, il 30 giugno 1997, Jiang Zemin rappresentava la Cina alla cerimonia del ritiro britannico da Hong Kong.
Il principe Carlo, inviato da sua madre la regina Elisabetta, definì in privato lui e i suoi gerarchi «delle vecchie orrende statue di cera». Non capì che cominciava allora quel processo storico di rivalsa per il «secolo delle umiliazioni» subite dall'Occidente che Xi Jinping conduce oggi con ben altro vigore.
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