Kerry «riscopre» l'Italia: «Partner basilare in Libia»

Lodi sperticate al vertice di Roma, dedicato alla lotta contro l'Isis Ma pochi giorni fa Washington criticava la nostra scarsa iniziativa

Cosa pensa di noi l'Amministrazione Obama? È il vero mistero buffo del vertice che ieri ha riunito al Ministero degli Esteri di Roma i 20 Paesi della coalizione impegnati contro lo Stato Islamico. Ai primi di dicembre, il segretario alla Difesa statunitense Ashton Carter sembrava un innamorato deluso. Tanto da chiedere in una lettera resa nota pochi giorni fa all'omologa Roberta Pinotti se non fosse il caso di utilizzare i quattro Tornado dispiegati nei cieli iracheni non solo per osservare, ma anche per colpire le postazioni Isis. Ieri invece il segretario agli Esteri John Kerry, reduce da una mangiata di tagliolini al tartufo con Paolo Gentiloni, era in vena di lodi sperticate. «L'Italia è stata grandiosa - dichiara - il suo impegno nella coalizione è uno dei più grandi in termini di persone, di contributi finanziari e militari in Iraq e, in particolare, per il suo ruolo di leadership in Libia e nel processo di formazione del governo».La verità sta ovviamente nel mezzo. E muta a seconda delle esigenze. L'Italia «svogliata» di dicembre diventa la prima della classe se all'ordine del giorno c'è una Libia poco strategica per la Casa Bianca, ma dove serve un alleato controllabile per tenere a bada l'irruenza di una Francia pronta - come nel 2011 - a combinar disastri. Nel disegno americano l'Italia dovrà coordinare l'intervento militare che verrà richiesto alla comunità internazionale dal governo d'intesa nazionale libico del premier Fayez al Sarraj. Un intervento affidato alle forze aeree e che non prevede, al di là di distaccamenti di «forze speciali» anche italiane, la presenza di truppe di terra. Il problema è cosa succederà se martedì fallirà il nuovo tentativo di ottenere il voto di fiducia del parlamento di Tobruk. A quel punto il ruolo italiano rischierebbe di esaurirsi per mancanza di attori libici da coordinare. Non a caso, forse, Le Figaro faceva notare ieri citando fonti del governo francese che l'intervento potrebbe essere innescato anche da fattori «imprevisti» come un attentato rivendicato dalla fazione libica del Califfato o da una sua ulteriore avanzata. Ovviamente anche la questione irachena se vista da Roma assume connotazioni diverse. Dietro gli incensamenti di Kerry c'è la delicata questione della diga di Mosul destinata, come avverte Washington, a crollare, facendo più morti di quanti non ne abbia fatti fin qui il Califfato, se qualcuno non ne rafforza le fondamenta. Anche qui noi italiani torniamo utili. La Trevi, la ditta di Cesena vincitrice della gara per l'intervento, è anche la sola ad avervi partecipato. Resta dunque l'unica a poter scongiurare un disastro che regalerebbe ulteriori sostegni ad un Califfato cui guarda con favore la maggioranza dei sunniti nord iracheni. La questione è ben più complessa, però, di come l'abbia messa il premier Matteo Renzi quando lo scorso dicembre diede per scontato l'invio di 450 militari italiani incaricati di difendere i lavori. Il governo iracheno, controllato dai gruppi sciiti, è ormai più vicino a Teheran che a Washington e si guarda bene, pur avendo assegnato la commessa agli italiani, dallo scontentare le proprie fazioni concedendo la presenza di un contingente militare alleato degli Usa. E così a Bagdad qualcuno preme per condizionare il contratto all'accettazione di una sicurezza garantita esclusivamente da forze irachene. «Le trattative continuano - sottolineano fonti diplomatiche - e ci auguriamo di arrivare ad un accordo. C'è una certa sensibilità da parte di alcune entità politiche irachene...

stiamo cercando di offrire assicurazioni e garantire che le truppe serviranno solo alla sicurezza del cantiere». A differenza di come la mise Renzi il sì ai nostri militari resta, insomma, molto incerto. E ancor di più la sicurezza degli operai italiani mandati a lavorare vicino alle posizioni del Califfato.

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