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Gli assi in mano a Putin per evitare il crac

Se il Cremlino congela (almeno per ora) le richieste politiche in arrivo da Donetsk e Lugansk, è altrettanto possibile che il sostegno materiale ai ribelli si faccia più forte nel momento di massima difficoltà

Gli assi in mano a Putin per evitare il crac

Il paragone più ricorrente è con il 1998, e allora la crisi sorprese la Russia in agosto. La chiamavano influenza da rublo: banche chiuse, conti bloccati e moneta al minimo di sempre su marco e dollaro. Quindici anni dopo il Paese affronta un'altra emergenza finanziaria, stavolta alla vigilia dell'inverno, il marco non c'è più e bisogna difendersi dall'euro. «Dobbiamo pensare a nuove abitudini di vita», ammette Elvira Nabiullina, capo della Banca centrale da meno di un anno, alle prese con uno scenario impensabile sei mesi fa. Poche parole che dicono alla Russia molto più di quanto l'Europa riesca a comprendere: dopo una lunga stagione d'affari e di scambi con l'Occidente, a Mosca s'avverte di nuovo l'oltraggio dell'assedio, poco importa se riguarda confini o mercati, ed è questo il risultato più rischioso della crisi. Chiudere le porte del Cremlino sarebbe la cosa più semplice da fare per Vladimir Putin, non è detto che sia la migliore per superare la crisi, ma è la stessa che si trova nella storia della sua enorme nazione.

L'altra notte il presidente russo ha dato il via libera alle ultime operazioni per rallentare la corsa all'indietro del rublo; secondo voci raccolte dal quotidiano Kommersant avrebbe anche pensato di rimettere al governo l'ex ministro Kudrin, che è liberale come il premier, Dmitri Medvedev, ma di un clan meno incline ai compromessi. Insomma, nei palazzi di Mosca si lavora sul serio per evitare un altro '98. I punti in comune sono tanti, anche in quei mesi il crollo del rublo fu anticipato da una guerra, allora si combatteva in Cecenia, mentre oggi la battaglia è nella parte orientale dell'Ucraina, che milioni di russi considerano un confine, non certo una terra straniera. «Rispettiamo l'integrità territoriale dell'Ucraina, il Donbass non sarà una nuova Crimea», ha detto ieri il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, uno degli alleati più solidi nella schiera di Putin. Si potrebbe credere che l'incontro di domenica a Roma con il collega americano, John Kerry, abbia allentato la tensione, ma non è detto che sia vero. Il caso Crimea alimenta ancora le critiche e gli attacchi di Washington e Bruxelles, proprio dall'Ue sono partite ieri altre sanzioni economiche contro la Russia.

Se il Cremlino congela (almeno per ora) le richieste politiche in arrivo da Donetsk e Lugansk, è altrettanto possibile che il sostegno materiale ai ribelli si faccia più forte nel momento di massima difficoltà – dalle città russe continuano a partire convogli di aiuti umanitari per le città occupate. Ma la crisi del '98 segnò soprattutto la fine di Boris Eltsin, l'uomo che aveva portato la Russia, seguendo fortune alterne, dal socialismo reale all'economia di mercato. Nessun leader è al sicuro quando le angosce della politica arrivano sulla tavola dei cittadini, e questo vale anche per uno popolare come Putin: scelto proprio da Eltsin come suo successore, oggi è dal suo destino che si deve tenere alla larga.

Ma lo zar ha ancora tante carte da giocare.

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