
Introdurre il reato di femminicidio purtroppo non equivale a dire meno donne uccise. Per questo motivo 80 docenti universitarie di diritto penale chiedono di mettere mano al decreto legge e di considerare la complessità del fenomeno. Cioè non solo di punire con l'ergastolo gli assassini ma anche di lavorare sulla prevenzione. Perché non ci siano più Martina, Giulia, Chiara né tutte le altre.
Oggi le penaliste presenteranno il loro appello in commissione Giustizia in Senato. «Poi lo invieremo a Governo, a Parlamento e Ministero della Giustizia. Vogliamo aprire un dibattito» spiegano Maria Virgilio e Silvia Tordini Cagli, tra le autrici del testo.
L'obbiettivo è migliorare il testo e rendere ancora più capillare la legge per contrastare (e prevenire) i femminicidi, per cambiare cultura e combattere la violenza contro le donne. «Quello che non convince è che manca del tutto la parte relativa alla prevenzione - spiega Virgilio - come anche la Convenzione di Istanbul invita a fare. Così si rischia di fare propaganda. Lo vediamo nei paesi sudamericani dove il reato di femminicidio esiste ma i casi sono numerosissimi e l'introduzione della norma non li ha limitati».
Nel disegno di legge si prevede che la pena per il femminicidio sia l'ergastolo, ma anche su questo le penaliste non sono persuase. «Intanto perché è una pena fissa che è contraria al diritto penale e al principio di rieducazione - osserva Tordini - poi sembra che introducendo questa fattispecie di reato il problema si risolva. Quando è chiaro che non è così.
Si rischia di passare un messaggio pericoloso».Le penaliste puntano ad approfondire una riflessione - già avviata - per cambiare l'immagine della donna «troppo spesso mortificata, che favorisce o giustifica atteggiamenti di delegittimazione e sopraffazione».