L'arresto di Messina Denaro

L'arresto in clinica. "Sì, il boss sono io". Le accuse delle toghe. "Coperture borghesi"

È stato catturato ieri mattina Matteo Messina Denaro, il boss di Cosa Nostra più ricercato d'Italia. Dopo 30 anni di latitanza e a 30 anni esatti dall'arresto di Totò Riina, la notizia ha fatto il giro del mondo in una manciata di minuti

L'arresto in clinica. "Sì, il boss sono io". Le accuse delle toghe. "Coperture borghesi"

È stato catturato ieri mattina Matteo Messina Denaro, il boss di Cosa Nostra più ricercato d'Italia. Dopo 30 anni di latitanza e a 30 anni esatti dall'arresto di Totò Riina, la notizia ha fatto il giro del mondo in una manciata di minuti.

Dopo averlo cercato ovunque per decenni, i carabinieri del Ros lo hanno trovato come un paziente qualunque, sotto falso nome, nella clinica La Maddalena di Palermo, a meno di un chilometro dalla Direzione distrettuale antimafia, dove era in cura per un tumore da un anno, o forse due, come ha raccontato un medico della struttura.

Quando si è reso conto di essere stato scoperto e che la clinica era circondata, con militari in assetto da guerra ad ogni piano, il superlatitante ha tentato di allontanarsi. Una fuga durata pochi minuti. I carabinieri lo hanno bloccato in strada presso un ingresso secondario insieme al suo autista, Giovanni Luppino, un agricoltore incensurato e insospettabile di Campobello di Mazara, paese vicino a Castelvetrano, città natale di Matteo Messina, ora accusato di favoreggiamento. Quando al boss è stato chiesto chi fosse non ha opposto nessuna resistenza e ha rivelato il suo vero nome: «Sì, sono Matteo Messina Denaro». Cappello bianco in testa e occhiali scuri, indossava una giacca di pelle e un orologio da 35mila euro al polso. Non era armato e non aveva il giubbotto antiproiettile. Aveva l'aspetto di un paziente qualunque, smagrito e sofferente, con il volto stanco, conseguenza delle terapie a cui era sottoposto per un tumore al colon per il quale era già stato operato nel 2001 e che poi aveva intaccato anche il fegato. Il boss si sottoponeva a cicli di chemio ogni sei mesi e anche ieri era in clinica per la terapia. Aveva già fatto il tampone ed aspettava di essere ricoverato in day hospital. In clinica lo conoscevano tutti come Andrea Bonafede, classe 1963, geometra, l'identità sul documento che usava per la latitanza. E che aveva utilizzato anche per ricevere tre dosi di vaccino anti Covid. Alcuni sanitari lo descrivono come «un uomo generoso», ogni volta che andava a curarsi portava olio o altre specialità contadine. È stato portato via senza manette e trasferito prima in caserma per le operazioni di identificazione, poi in elicottero in una località protetta. «L'arresto dell'ultimo stragista onora i martiri di Cosa nostra», ha commentato il procuratore capo di Palermo, Maurizio De Lucia. Le sue condizioni sono state ritenute compatibili con il carcere. L'aggiunto Paolo Guido ha detto che è stato già proposto il 41 bis, anche se al momento non è possibile sapere a quale struttura sarà destinato. Continuerà ad essere curato e farà la terapia in un centro adeguato. «Certo non abbiamo trovato un uomo distrutto, era in apparente buona salute, curato» ha detto Guido.

Nessuna soffiata all'origine del blitz, ma un'indagine «pura», fatta con intercettazioni e pedinamenti. Non c'erano stati contatti preliminari con la clinica, dove al momento non sono state rilevate complicità, ma solo ricerche sul database dei malati oncologici per individuare possibili soggetti con una patologia compatibile con quella del latitante. La conferma che fosse lui è arrivata solo ieri. Il boss, ha spiegato De Lucia, è riuscito a sfuggire alla giustizia per 30 anni anche grazie all'aiuto di una «fetta di borghesia mafiosa»: «Ha goduto di protezioni importanti e le indagini ora sono concentrate su questo». Ora gli investigatori sono sulle tracce del covo. «La cattura è stata possibile grazie alla determinazione dei carabinieri e al metodo Dalla Chiesa, attraverso la raccolta e l'analisi di un'enorme mole di dati» ha twittato il comandante generale dei carabinieri, Teo Luzi, sul profilo dell'Arma.

Anche Angelo Jannone, che è stato capitano della compagnia di Corleone negli ultimi due anni di Falcone, ha parlato di un'indagine tradizionale, fatta seguendo il passaggio dei «pizzini» di mano in mano, di staffetta in staffetta, con la protezione di cui godono i mafiosi in territori come il trapanese, dove ci sono logge massoniche cosiddette «spurie» legate a personaggi deviati della politica, che insieme agli imprenditori costituiscono una rete di copertura e di appoggio.

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