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L'astensione dei "non convinti"

Non c'è in giro tutta questa voglia di voto. La pandemia non rende più viva la democrazia, la addormenta, la scansa, la nasconde sotto il cielo di un autunno piovoso

L'astensione dei "non convinti"

Non c'è in giro tutta questa voglia di voto. La pandemia non rende più viva la democrazia, la addormenta, la scansa, la nasconde sotto il cielo di un autunno piovoso. Il rumore di fondo resta quello dei social, una minoranza che si agita e si accapiglia. È così che quasi la metà degli italiani resta a casa, soprattutto a Roma e Milano, e sceglie di non schierarsi, di non interessarsi, perché la vita è altrove.

I dati ufficiali segnano il 54,96 per cento di votanti, nel 2016 erano stati il 61,58. Quelli che mancano sembrano essere soprattutto i consensi del centrodestra. Questo fa dire a Enrico Letta, segretario del Pd, «siamo tornati in sintonia con il Paese». Non è esattamente così, ma chi non vota non conta. Quando le cose non vanno come uno se le aspetta c'è da interrogarsi sui perché. Non c'è dubbio che i candidati non hanno convinto il proprio elettorato. Si sono mostrati deboli, con personalità sfumate e come politici di punta piuttosto inesperti. Non ci si improvvisa sfidanti. Come si è arrivati a questo? Troppi veti incrociati. Questo non va bene, quello mi sta antipatico, un altro è troppo vecchio o cane sciolto o popolare. Alla fine sono si è arrivati a compromessi al ribasso. I partiti del centrodestra non si sono aiutati. Non c'è stata la necessaria collaborazione. È quello che accade con i ciclisti in fuga quando non c'è fiducia e nessuno tira per non favorire la vittoria degli altri. Solo che in questo caso i concorrenti gareggiavano per squadre alleate.

È mancata insomma la chiarezza su chi sia il leader della coalizione e, in mancanza di questo, una strategia condivisa. Non è che il Pd e la sinistra abbiano tutte queste grandi idee, ma in una stagione di incertezze si sono affidati alla vecchia strategia di puntare l'indice contro un nemico. Non importa dire «chi siamo», l'importante è gridare «chi non siamo». La scelta di rappresentarsi solo come anti identità non sempre in passato ha pagato, questa volta ha funzionato perché gli avversari non avevano un centro. Non ha aiutato, a destra, neppure lo strabismo rispetto al governo Draghi. Ha finito per creare confusione tra gli elettori. Non è arrivato un messaggio netto. È da qui anche che arrivano i non votanti. La coalizione in teoria dovrebbe avere almeno un 40 per cento dei consensi. Questa volta non è riuscita a intercettarli. L'impressione è che non ci sia stata tanta voglia di allargarsi, di spostare l'orizzonte, forse per timore di perdere identità.

Qualcuno adesso si chiede se non sia stato un errore chiudere le porte a Carlo Calenda. La risposta è che il nipote di Luigi Comencini non è di centrodestra. Non ha quella storia. Adesso però è un «centrista». Non è detto che sia incompatibile. Beppe Sala, in fondo, non è certo di sinistra. Non lo è per cultura e visione del mondo. La sinistra non ha avuto però alcun problema a puntare su di lui.

Si è allargata e ci ha messo il marchio.

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