"La legislazione sull'Antimafia vecchia di 30 anni. Dev'essere rivista"

Il giurista parla dei rimedi da applicare al sistema: "Servono regole per l'accesso ai dati e una più precisa informativa periodica al Parlamento"

"La legislazione sull'Antimafia vecchia di 30 anni. Dev'essere rivista"
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Il professor Sabino Cassese (nella foto), giudice emerito della Corte Costituzionale e già ministro della Funzione pubblica, a tutto campo sullo scandalo «dossieraggio». Il giurista pone degli accenti precisi su quello che andrebbe fatto, sotto il profilo giuridico, per rendere la macchina statale più trasparente. Ma rimarca anche la necessità di attendere il termine del lavoro da parte della Procura di Perugia.

Professore, un ennesimo scandalo legato ai rapporti tra poteri. C'è necessità di un intervento legislativo che sani, magari anche dal punto di vista deontologico, alcune possibili lacune normative?

«Quello che finora sappiamo mostra legami stretti tra ordine giudiziario, media e politica. Se si vuole assicurare l'indipendenza che la Costituzione prescrive per l'ordine giudiziario, occorre garantire la neutralità di chi ne fa parte, così come, se si vuole assicurare l'imparzialità dei funzionari pubblici, occorre stabilire la loro distanza dalla politica dei partiti».

Lei, di recente, si è domandato se l'antimafia serve ancora. In che senso?

«La legislazione antimafia ha fatto un lungo percorso, in una prima fase preparatoria che va dal 1956 al 1991 e una seconda che parte dal 1992 e, attraversando molte modificazioni, arriva ai nostri giorni. La Procura nazionale e le sue diramazioni locali hanno più di trent'anni di vita. Come tutti gli organismi straordinari (si interessa di un numero limitato di reati: mafia, camorra, ndrangheta, narcotraffico, tratta di esseri umani, riciclaggio, appalti pubblici, misure di prevenzione patrimoniali, ecomafie, contraffazione di marchi, operazioni finanziarie sospette, organizzazioni criminali straniere), non è destinata all'eternità e dopo tre decenni sarebbe utile un check up. Questo dovrebbe riguardare sia l'oggetto, sia le finalità. L'oggetto perché mafia e terrorismo sono nel frattempo cambiati. Le finalità perché queste debbono adeguarsi ai cambiamenti».

In Italia parliamo spesso di «manine» quando emergono scandali di questo tipo. La sensazione è che esista sempre uno Stato profondo che i cittadini non vedono. Come rendere più trasparente la Pubblica amministrazione? E come intervenire su questa sensazione di impotenza della politica?

«Bisogna, innanzitutto, fare un'accurata diagnosi. Per ora sappiamo soltanto che una medicina per curare una malattia agisce come agente patogeno, producendo altre malattie. I rimedi vanno cercati prima all'interno, poi all'esterno. Per esempio, all'interno, stabilire regole per l'accesso ai dati solo a più di una persona contemporaneamente, in modo che vi sia un controllo reciproco. Quanto all'esterno, una più precisa informativa periodica al Parlamento che, rispettando la segretezza dei dati, tuttavia renda conoscibili, in termini aggregati, addetti e funzioni, nonché regole che le governano».

In tutta franchezza, ora l'aria in commissione Antimafia sembra cambiata. Si pensi ai passi in avanti su via D'Amelio. Non ha la sensazione che si sia spezzato un monopolio ideologico di quella istituzione commissariale?

«Per ora sappiamo che la concentrazione di dati e degli accessi a banche dati e la permeabilità della struttura hanno prodotto gravi inquinamenti.

Sappiamo altresì che nel corso di quasi tutto l'ultimo decennio i tre capi della procura che si sono succeduti, quando l'hanno lasciata, sono passati nell'agone politico configurando una specie di cursus honorum. Ma ripeto occorre che la procura di Perugia completi l'analisi e, oltre a fare quanto ad essa compete, metta in grado il legislatore di operare le necessarie correzioni».

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