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"L'Egitto e l'Algeria ci salveranno dall'Isis"

L'ex numero uno dell'Eni: "Più che un intervento militare dell'Italia penso a un forte sostegno ai Paesi vicini"

"L'Egitto e l'Algeria ci salveranno dall'Isis"

«La Libia? Sono ottimista». Paolo Scaroni, oggi vice presidente di Rothschild group e per nove anni numero uno dell'Eni, da profondo conoscitore del Paese nordafricano non ritiene ancora drammatica la situazione, che può essere risolta anche senza un'azione militare dell'Italia e dei Paesi alleati. «Più che immaginare un intervento, mi immagino un forte sostegno ai Paesi vicini, soprattutto l'Egitto». Scaroni ritiene che la missione militare avesse senso tre anni fa. «Sarebbe servito a disarmare tutte le milizie in Libia. Ma al punto in cui siamo, concordo con il premier Renzi, per un intervento servono 100mila uomini».

Da che cosa deriva il suo ottimismo sulla Libia?

«Innanzitutto è un piccolo Paese, con sei milioni di abitanti. Poi ha molte risorse. Anche con i prezzi del petrolio a 50 dollari al barile, tutti i libici potrebbero vivere di rendita. Non è un problema di sopravvivenza. Quindi credo che alla fine il buon senso prevarrà. Poi, i due fratelli maggiori della Libia, l'Egitto e l'Algeria, vedono come la peste uno stato jihadista alle porte di casa e faranno di tutto per evitarlo».

Dimostra molta fiducia nell'Egitto.

«L'Egitto dispone di un esercito forte e di grande tradizione. Al Sisi ha fatto una sorta di colpo di Stato, poi legittimato dalle elezioni, e ha l'appoggio politico ed economico non solo dell'Occidente ma anche di quei governi che vedono i Fratelli musulmani come una minaccia, come l'Arabia Saudita, il Kuwait e Abu Dhabi. Il Cairo ha una tradizione di rapporti con la Libia e non tollera i Fratelli musulmani, figuriamoci l'Isis. Ecco perché ho fiducia. Perciò, ripeto, sono ottimista».

Quindi non condivide l'allarme di infiltrazioni terroristiche?

«La minaccia terroristica? L'Europa ce l'ha soprattutto in casa. Finora la maggior parte degli attentati è stata compiuta da militanti islamici che vivono qui da anni. Il problema ce l'abbiamo, per esempio i continui sbarchi di immigrati sulle coste italiane, ma non credo sia quello il canale usato dal terrorismo».

Non c'è un problema di sicurezza energetica?

«La sicurezza energetica dell'Europa è il bandolo della matassa, ma la situazione libica comporta altre implicazioni: economiche, d'immigrazione e di possibili atti terroristici, come dicevamo prima».

Partiamo dalla sicurezza energetica.

«Quando parliamo di sicurezza energetica, parliamo di gas e non di petrolio. Di petrolio al mondo ce n'è tanto e si può acquistare in più parti. Il gas invece ha un problema di trasporto molto più complesso rispetto al petrolio. Gas significa riscaldamento, attività industriali ed elettricità. L'Unione europea ne consuma 500 miliardi di metri cubi, un terzo dei quali arriva dalla Russia. Il resto è diviso tra produzione domestica e importazioni dall'Algeria, dalla Libia e dalla Norvegia via pipeline. E poi c'è l'importazione di gas liquido dalla Nigeria e dal Qatar e da altre fonti minori».

Quindi il gas russo ha un ruolo fondamentale.

«Le produzioni domestiche Ue sono in fase decrescente, quindi l'import crescerà. Perciò il ruolo della Russia potrebbe aumentare o diminuire secondo le scelte politiche. Certo, mettersi in conflitto con un Paese che ti garantisce un terzo del tuo fabbisogno, be' è una scelta che va ponderata. È anche vero che noi abbiamo bisogno di loro come loro hanno bisogno di noi, visto la quantità di denaro che versiamo per le forniture. Ma noi abbiamo bisogno del gas ogni giorno, loro dei soldi possono farne a meno per qualche mese».

Ma l'eventuale rottura con Mosca spingerebbe l'Europa a trovare delle alternative in tempi stretti. Ci sono?

«Sotto il profilo politico, nel momento in cui si dice: la Russia non è più un partner con cui avere rapporti importanti, allora si devono fare altre scelte e bisogna dire quali. Le alternative ci sono, ma sono complicate, costose e ci sembrano poco urgenti oggi perché, con la crisi economica, i consumi sono diminuiti e gli ultimi due inverni sono stati eccezionalmente caldi. Il problema è conosciuto a Bruxelles ma non è vissuto con angoscia per queste ragioni».

E il gas libico?

«Pesa all'incirca per il 3 per cento del fabbisogno europeo e arriva in Italia. Noi siamo dei privilegiati e, bisogna dire, grazie all'Eni. Abbiamo gasdotti che ci collegano a Russia, Libia, Algeria e Olanda-Norvegia oltre al gas di nostra produzione. La diversificazione delle fonti ci rende un Paese abbastanza al sicuro sugli approvvigionamenti. Pensate che in Europa ci sono nove Paesi, dall'Ungheria alla Slovacchia fino alla Repubblica Ceca, per i quali il gas russo è tutto, non hanno fonti alternative».

C'è il rischio che la fornitura libica rischi di saltare?

«In passato ci sono state delle riduzioni, ma mai interruzioni, neppure nel periodo della rivoluzione. Il gas Eni arriva a Mellitah, vicino a Tripoli: una parte fornisce le centrali elettriche libiche e una parte viene pompata nel Greenstream per andare in Italia. Quindi, se qualcuno blocca Mellitah, mezza Libia resta al buio e il Paese entra nel caos più totale».

Lei in passato ha affermato che l'Italia è terra di petrolio e gas e che le risorse non sono valorizzate a causa di una classe politica miope.

«Si può fare di più. Non lo dico solo io, ma lo dice l'Eni, lo dicono tutti. Fare di più non significa soddisfare il fabbisogno nazionale. La produzione domestica oggi soddisfa il 10 per cento del fabbisogno, potremo arrivare al 20. Ma non è la soluzione ai nostri problemi energetici».

Quanta autonomia ci lasciano in politica energetica i partner europei?

«Facciamoci una domanda: una situazione di attrito così forte con la Russia, ci conviene? La risposta immediata è no. Però sono scelte politiche. Non metto in discussione le decisioni di governi e Parlamenti sulle sanzioni contro Mosca per la crisi in Ucraina. Ognuno ha la sua opinione personale».

L'Europa non ha un'unica voce in politica estera e ci sono alcuni Paesi che non intendono assolutamente delegarla a Bruxelles, imponendo di fatto la loro.

«Paesi come Francia e Inghilterra, per ragioni storiche, e Germania, per ragioni economiche, non si faranno mai rappresentare dall'Unione europea in politica estera. Io farei la stessa cosa, mi pare ovvio. È bello immaginare gli Stati Uniti d'Europa, ma se ne parlerà fra due secoli. Possono desiderarlo gli italiani, i belgi... Perché la Mogherini non era ai negoziati di pace a Minsk? Perché l'Alto rappresentante della politica europea è un funzionario di Bruxelles, come prima di lei era Lady Ashton. È giusto che sia così. Non è immaginabile che qualcuno a Bruxelles decida la politica estera di Londra o di Berlino».

Ma questo non limita in qualche modo la sovranità italiana?

«Direi di no. Faccio l'esempio della Russia. Noi abbiamo storicamente un rapporto privilegiato. Non importa quale maggioranza politica ci sia al governo in Italia. E a Mosca ci tengono. Certo, se avessimo dovuto decidere noi sulle sanzioni, forse avremmo preso una strada diversa, ma giustamente. D'altra parte, però, senza il nostro intervento forse le sanzioni sarebbero state più dure».

Il conflitto ucraino e le misure adottate hanno però diviso i Paesi europei.

«Molti non conoscono la storia. L'Ucraina è legata alla Russia da 400 anni, un rapporto storico appunto. È come se domani il Canada diventasse acerrimo nemico degli Stati Uniti. Non entro nella polemica politica, ma certamente i russi strabuzzano gli occhi nel vedere un'Ucraina che sta dall'altra parte della barricata. Non è una cosa naturale, come per la Polonia o per i Paesi baltici, ex figli dell'Unione Sovietica e non della Russia zarista. Comunque, se gli Stati Uniti e l'Europa prendono una posizione, dobbiamo supportarla».

Ci sono molti progetti italiani, come per esempio Southstream (oggi abortito), che hanno indispettito i nostri alleati.

«Sotto il profilo energetico, Southstream era il progetto di un gasdotto che evitava un Paese di transito, l'Ucraina, e serviva a migliorare la sicurezza dell'approvvigionamento. È chiaro che se io voglio ridurre o lasciare inalterata la quantità di gas russo, allora Southstream perde significato. Le scelte politiche, alla fine, sono quelle che condizionano».

I due fronti aperti, Russia e Libia, sono molto diversi. Uno è uno Stato sovrano, il cui governo può prendere degli impegni e rispettarli, l'altro invece non ha neppure dei veri interlocutori.

«Una breve premessa storica: il nome Libia l'hanno inventato gli italiani. Erano tre province dell'impero ottomano, Fezzan, Cirenaica e Tripolitania, gestite separatamente e con pochi contatti tra loro. Quando è stato tolto il tappo Gheddafi, sono esplose le rivalità tra le province e le varie tribù, a cui si sono aggiunti i Fratelli musulmani e oggi addirittura l'Isis. Tutto questo è stato aggravato dalla legge emanata nel 2012 che impedisce a tutti quelli che hanno avuto a che fare con Gheddafi di ricoprire ruoli pubblici. Gheddafi è stato il dittatore assoluto della Libia per più di 40 anni. Hitler per 13 anni, Mussolini 20. Parliamo di una dittatura dalla lunghezza incredibile. Se uno esclude la gente che è entrata in contatto con lui, a chi si rivolge? A persone che erano esuli all'estero e che rientrati erano stranieri in patria. Quindi chi ha alzato la testa? I capi tribali, per carenza di leadership».

Da qui è partito l'inferno che conosciamo.

«In Libia c'è una quantità di armi spaventosa. Quello che è successo è la cronaca di una morte annunciata. Non che i libici siano bellicosi, anzi, sono un popolo mite. Se ogni italiano avesse a disposizione due kalashnikov come in Libia, ci sarebbero più morti qui».

L'Italia e l'Europa potevano fare di più o muoversi prima?

«Penso di sì. La Libia è una priorità per noi italiani, lo dice la stessa geografia. Potevamo gestire meglio la transizione».

Ma la democrazia è esportabile in questi Paesi?

«Ci sono Paesi in Africa che eleggono i loro rappresentanti e hanno una loro democrazia, magari un po' zoppa. Ma noi a quello dobbiamo puntare, non abbiamo altro da vendere al mondo se non il modello democratico. Bisogna cercare di farlo funzionare il meglio possibile. Se si esce da questo modello, tutto il resto è peggiore».

È giusto accordarsi con i dittatori in nome della realpolitik? Lei ne ha conosciuti diversi con il suo lavoro.

«Devo dire che Gheddafi era un dittatore particolarmente odioso e crudele. Ha fatto soffrire il suo popolo, l'ha anestetizzato con un po' di denaro dato a tutti, così la gente non era stimolata a fare. Ha finanziato guerriglie e terrorismo in tutto il mondo. Difendere Gheddafi per me è impossibile. Posso capire alla fine chi dice “era meglio lui”, ma realpolitik o no, il Colonnello era impresentabile».

Il controllo dei pozzi da parte degli integralisti permetterebbe loro di autofinanziarsi e di contrabbandare petrolio a prezzi ridotti. Questo può influenzare in qualche modo il mercato del greggio?

«Sono quantità poco significative.

Comunque, nessuno vuole che si ripeta ciò che è accaduto in Siria e Irak».

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