Dopo il «pericolo fascista» (che non sembra spaventare più di tanto gli immemori elettori italiani) e l'allarme rosso contro chi vuole «stravolgere» la Costituzione (ma lo slogan «presidente eletto dal popolo», secondo i sondaggi, pare sedurre più che inquietare gli italiani in cerca di ricette magiche), la campagna del Pd contro la possibile vittoria della destra vira verso un nuovo leit-motiv: le divisioni e le rivalità interne alla coalizione Meloni-Berlusconi-Salvini.
Un leit-motiv più maneggevole, anche perché indirettamente confermato dagli stessi protagonisti (nel centrodestra «c'è disappunto verso chi sta vincendo», conferma da Fratelli d'Italia il meloniano Guido Crosetto, e certo non è un caso se ieri Salvini e Meloni hanno sentito il bisogno di far sapere di essersi incontrati e di far circolare una foto che li ritrae affettuosamente uniti), ma con una debolezza intrinseca: punta più sul possibile caos post-elettorale nel centrodestra che sulle reali possibilità di vittoria degli avversari. «Una destra dilaniata e unita solo dal potere», dice il vicesegretario Pd Provenzano: si scommette (abbastanza facilmente) sulle divisioni future, e sulla potenziale ingovernabilità, sorvolando sul fatto che, come ricorda un dirigente dem, «il potere, almeno all'inizio, è un collante assai forte».
Il problema, per Enrico Letta e il suo Pd, è che lo spauracchio di Giorgia Meloni premier è un'arma a doppio taglio. Indispensabile al leader dem per la sua campagna elettorale tutta puntata sulla «bipolarizzazione» (o me o Giorgia) necessaria ad arginare perdite di voti verso il terzo polo o persino verso i Cinque stelle. Ma, al tempo stesso, paventare la vittoria della leader di Fdi come unica alternativa alla propria, finisce per legittimare le sue pretese su Palazzo Chigi. Del resto, se qualcuno nutriva la speranza che il Quirinale potesse mettere i bastoni tra le ruote ad una possibile ascesa di Meloni alla guida del governo, dal Colle stesso è arrivata la smentita ai retroscena che attribuivano a Mattarella possibili resistenze all'incarico al leader del primo partito. Ieri, maliziosamente, l'ex direttore del Corriere della sera Paolo Mieli definiva quello di Mattarella «un modo per stare fuori dai giochi, e al tempo stesso una implicita dichiarazione di disponibilità. E anche Draghi a Rimini ha dato un evidente segnale nella stessa direzione: non saremo noi a farvi la guerra».
Al Pd, dunque, non resta che sperare nella guerra interna contro Meloni. Gli auspici di un Senato numericamente in bilico, che potrebbe insidiare da subito la stabilità di un governo di destra, sono al momento messi in dubbio dai sondaggi, che danno la coalizione Meloni-Berlusconi-Salvini in testa di una ventina di seggi sui 200 di cui sarà composto Palazzo Madama. Certo, Fdi sembra destinata a fare la parte del leone sul proporzionale, e a «superare la somma Lega-Fi», nota il dem Alessandro Alfieri. Ma la spartizione «assai generosa» dei collegi uninominali potrebbe in parte compensare le perdite dei singoli partiti. E almeno all'inizio l'effetto «band-wagon» agirà da collante. Certo, poi bisognerà fare i conti con le difficoltà estreme di governo in una situazione di crisi drammatica e di confronto con i mercati, in allarme per il «rischio Italia» se vincesse la destra. E non è un caso se Giorgia Meloni ha già fatto trapelare che i ministeri chiave (Esteri, Interni, Economia e Difesa) saranno in qualche modo condivisi con il Quirinale, nella consapevolezza di dover superare le diffidenze della Ue.
Alla fine, il migliore spot per «Giorgia premier» lo fa, da sinistra, Gianni Cuperlo. Non intenzionalmente, ovvio, ma per polemizzare con Carlo Calenda che aveva detto di avere «il curriculum» per poter fare il premier.
Il curriculum non conta, replica Cuperlo: «Se scegli di far politica» conta «il consenso che raccogli. Se ti presenti alle elezioni, a Palazzo Chigi non ti ci porta il curriculum, ti ci mandano i voti». E pazienza se la tua unica esperienza di governo della cosa pubblica è stata fare il ministro dello Sport.
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