Cronache

L'Harry's Bar guida la rivolta: "Non siamo lager, così chiudo"

L'alta ristorazione all'attacco del governo. Cipriani: "Regole demenziali". I big di Milano: meglio il lockdown

L'Harry's Bar guida la rivolta: "Non siamo lager, così chiudo"

«Con queste regole da lager l'Harry's Bar non riapre, nè il 18 maggio, nè il primo giugno, mai più». Arrigo Cipriani, patron dello storico locale fondato 89 anni fa dal padre a due passi da piazza San Marco e Venezia, è drastico. Non riesce a trattenere la rabbia per le regole «da geometra, demenziali» che il governo vuole imporre a bar e ristoranti per riaprire in sicurezza. «Questi signori di Roma - ha protestato ieri - si preoccupano per la nostra salute ma non di quello che verrà dopo: con queste misure si morirà di fame. Il turismo a Venezia non c'è più, non ci sarà a lungo, e queste regole non faranno altro che distruggere tutto. E poi sono sicuri che siano giuste? Come mai non vengono applicate negli altri Paesi?». Un allarme lanciato (con toni più soft) giorni fa dai ristoranti storici della Galleria Vittorio Emanuele a Milano. Con il turismo azzerato e la regola dei quattro metri quadrati di distanza per cliente che qualche senatore ha definito «da teorema di Pitagora», è più conveniente tenere chiuso del tutto, almeno nella prima fase. O si rischia pure «di bruciare subito la liquidità faticosamente ottenuta dalle banche» ha avvertito Pier Galli, presidente dell'associazione «il Salotto» che riunisce i locali che hanno un'insegna nel monumento storico.

Hanno base principalmente a Milano ma intendono «fare sistema» a livello nazionale i fondatori dell'«Unione dei brand della ristorazione italiana (Ubri)» lanciata ieri. Come primo atto, hanno stilato un documento con le 15 misure «urgenti e imprescindibili» da proporre al governo per far sopravvivere il settore. L'associazione parte con undici catene made in Italy (da «Panino Giusto» a «Panini Durini», «Pescaria», «Lievità», «Poke House» a «La Piadineria») che l'anno scorso - grazie a 400 locali (30 all'estero) che impiegano 3.300 dipendenti - hanno fatturato complessivamente quasi 200 milioni di euro. Per il 2020 stimavano aperture e incassi in crescita, 470 locali e 250 milioni. Conti tutti da rivedere. «Abbiamo davanti mesi difficilissimi, il settore è al collasso - ammette il presidente Vincenzo Ferrieri, fondatore della catena Cioccolati Italiani -. Non sta a noi sindacare sui 4 metri quadri per persona, ma con queste norme di sicurezza il business non sarà sostenibile, non solo per il taglio dei tavoli ma perchè non si potrà garantire la stessa esperienza se in un locale da 80 tavoli ne puoi tenere 20. Le perdite dei ricavi per il settore arriveranno fino all'80%». Antonio Civita, ceo di «Panino Giusto», sa già che «a queste condizioni» non aprirà tutti i locali, «e l'incubo della riapertura sarà peggiore della chiusura, nei primi mesi perderemo più che nel periodo di lockdown». Per questo al governo chiedono di attivare le 15 misure di sostegno, perchè «solo tenendo le aziende in piedi oggi avrà garantito il versamento dei contributi nei prossimi anni». Il documento parte col capitolo tributi (cancellazione di Cosap, Tari, Imu, Ica, rateizzazione senza interessi delle imposte Ires-Irap previste a giugno, misure di sostegno a fondo perduto per le chiusure di marzo e aprile), prosegue con il personale (dalla proroga di cassa in deroga e Fis alla detassazione dei contributi fino al 31 dicembre, detrazione totale delle spese sostenute per l'acquisto di Dpi e adattamento dei locali, voucher di 24 mesi per il lavoro temporaneo).

C'è il tema critico del credito d'imposta del 60% per gli affitti commerciali, la richiesta di abbattere le commissioni su delivery e ticket restaurant, nel capitolo «varie» anche la domanda di contributi a fondo perduto per sviluppare siti di e-commerce e consegna a domicilio.

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