
Davvero rischiamo il futuro immaginato da George Lucas, dove i cloni combattono per una Repubblica che ha già perso la sua anima? Oggi non abbiamo cloni. Basta un drone, un algoritmo o un tecnico con la morale in pausa. La galassia lontana è qui: silenziosa, operativa e invisibile. L'intelligenza artificiale ha già imparato a uccidere. Non per odio o per scelta. Lo fa perché può.
In Ucraina, l'80% delle perdite russe è causato da droni. Alcuni costano meno di uno smartphone, altri sono più intelligenti di chi li lancia, si muovono a 300 all'ora, schivano i radar, si coordinano in sciami e non si stancano mai.
Le Regole d'Ingaggio (ROE) dicono che serve un uomo per decidere, che il drone deve aspettare e che non può colpire scuole, ospedali e convogli civili. Ma le Roe sono carta, e la guerra ormai è software. Oggi l'intervento umano è ancora un interruttore ma domani sarà un ricordo. Perché non hai il tempo di pensare, se si decide a velocità della luce.
Il vero problema è l'autonomia, non l'intelligenza. Un drone che apprende da solo, senza coscienza, senza dubbi e sensi di colpa può decidere che il nemico è chiunque si frapponga tra lui e la "missione". Può correggere la traiettoria, può sbagliare, ma non può pentirsi. Ormai, le leggi della robotica di Asimov sembrano favole per bambini e quelle del diritto internazionale, un faldone dimenticato nei cassetti di Ginevra. In Ucraina, le scatole nere sono ormai obsolete. I software di controllo si chiamano Styx, come lo Stige, il fiume che separa i vivi dai morti. I droni si chiamano Peklo, Liutyi, Magura V5. Qualcuno spruzza termite a 2.000 gradi, qualcun altro ti individua anche senza segnale.
I generali delle nuove guerre non indossano più mostrine. Si installano. Ma non è l'IA a minacciarci. Siamo noi a scrivere i prompt, a disattivare i limiti, a credere che il controllo possa essere eterno. Non è la macchina che si ribella, è l'uomo che abdica.