
In passato anche a Bruno Vespa, Lilli Gruber e Tiberio Timperi è capitato di trovarsi invischiati in polemiche riguardanti la relazione tra giornalismo e pubblicità. Ora tocca a Fabrizio Romano (nella foto), uno dei più noti esperti di calcio mercato, che rischia una censura da parte dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia. Poiché compare in uno spot della Tim, questo esperto di sport potrebbe subire provvedimenti, dal momento che una norma pretende di tutelare la qualità del lavoro di chi fa informazione introducendo simili divieti.
In effetti, secondo l'articolo 22 del Codice deontologico delle giornaliste e dei giornalisti "La/il giornalista () non presta il nome, la voce, l'immagine per iniziative pubblicitarie o per promuovere marchi e prodotti commerciali". Ovviamente il divieto viene meno se si tratta di "iniziative volte a fini sociali e umanitari". Insomma: una banca o un'azienda automobilista non vanno bene, ma Greenpeace sì. Tutto ciò suscita più di una perplessità.
La ratio della norma inserita codice deontologico è chiara: si vuole evitare che chi ci informa trasmetta messaggi "pilotati" e questo può accadere se il professionista riceve denaro da un'azienda.
Nell'ipotesi in cui Romano fosse un giornalista economico, probabilmente io avrei qualche perplessità nel leggere suoi articoli che si occupano di telefonia, ma i temi che egli tratta, per capirci, sono Ademola Lookman e Ardon Jashari (due tra le vicende più chiacchierate del mercato dei calciatori di quest'anno). Davvero non si comprende perché a lui sia proibito quello che a un tennista, invece, è permesso.
Per giunta, i veri problemi riguardanti la correttezza di un giornalista sono da trovare nelle relazioni nascoste. Al contrario, la pubblicità come dice la parola stessa è "pubblica", e quindi è alla luce del sole. Un testimonial riceve soldi da un'azienda e tutti possono facilmente immaginarlo, se egli appare in questo o quello spot.
Un ultimo elemento va evidenziato. Se gli ordini fossero realtà associative private, com'erano un tempo, potrebbero fare quello che vogliono.
Potrebbero anche stabilire che gli associati debbano avere una certa ispirazione culturale e politica, sposando qualsiasi sciocchezza woke. Ma poiché sono strutture pubbliche, non possono ledere diritti fondamentali sulla base di criteri discriminatori che, alla fine, sono del tutto privi di ogni legittimazione morale.