L'imposizione dei magistrati: "Mediatori culturali stranieri"

Dal ministero della Giustizia bando solo per candidati italiani. Il tribunale: "Non vanno discriminati gli altri"

L'imposizione dei magistrati: "Mediatori culturali stranieri"

Quella del mediatore culture è (dovrebbe essere) un'occupazione seria. E delicata. In essa dovrebbe riflettersi tutta la civiltà di un Paese che sa accogliere gli stranieri, aiutandoli a integrarsi nella nazione che li ospita. Ma siamo certi che in Italia ciò accada? Spesso sì. In qualche caso decisamente no. Succede quando il mediatore diventa solo lo specchio di un buonismo di facciata che però è la realtà a incarica di smascherare dipingendo scenari dai contorni inquietanti.

Negli ultimi mesi alcuni mediatori culturali (stranieri) sono stati arrestati in vari centri di permanenza e rimpatrio con gravi accuse come spaccio di droga e rapporti con l'Isis: attività delinquenziali con base proprio all'interno dei CPR dove i mediatori culturali si sarebbero invece trasformati in mediatori criminali. D'altro canto va ricordato come i mediatori culturali siano, in molti casi, essi stessi vittime di violenze e sopraffazioni; questo per sottolineare come sarebbe un errore fare di tutta un'erba un fascio. Tuttavia è indubbio come le poche «pecore nere» finiscano per gettare discredito sul buon nome dell'intera categoria. Una categoria la cui disciplina del suo status professionale è al centro di una problematica disputa circa le caratteristiche giuridiche riguardanti tale attività lavorativa. Il mese scorso ad essere colto in fallo, sotto il profilo giurisprudenziale, è stato addirittura il ministero di Giustizia che si è visto annullare un bando di concorso da esso indetto per la selezione di 15 mediatori culturali da assumere all'interno del sistema carcerario.

Appena letto il bando, alcune associazioni di migranti hanno presentato ricorso denunciando una sorta di «discriminazione razziale» all'interno dei requisiti richiesti. A cominciare dal fatto che il concorso era riservato «solo a cittadini di «nazionalità italiana». Un ricorso prontamente accolto dal Tribunale di Milano che ha infatti sancito la «nullità» del bando, che dovrà ora essere riscritto contemplando anche la possibile partecipazione di «cittadini stranieri».

La questione affrontata dal Tribunale di Milano nasce dal fatto che l'art. 38 del TU Pubblico Impiego (d.lgs 165/01) aveva demandato a un decreto ministeriale (che però non è mai stato emanato ndr) l'individuazione dei «posti di lavoro e funzioni» riservati ai soli cittadini italiani e dunque sottratti all'accesso sia dei cittadini dell'Unione, sia di quelle categorie di cittadini extra UE che, con le modifiche introdotte dalla L. 97/13, sono stati ammessi al pubblico impiego a parità di condizioni con i cittadini UE. Secondo il predetto art. 38 i posti riservati agli italiani avrebbero dovuto essere quei «posti di lavoro e funzioni che comportano l'esercizio diretto o indiretto di pubbliche funzioni o che attengono alla tutela dell'interesse nazionale».

Conclusione: il bando dovrà ora essere rifatto, in ottemperanza all'ordine del giudice che ha

inteso «riaffermare un principio di uguaglianza ai fini di una politica di inclusione».

Se poi certi mediatori culturali evitassero di spacciare droga, fiancheggiare l'Isis o commettere altri reati, gliene saremmo tutti grati.

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