Alla fine se ne è andata, non ce l'ha fatta a resistere alla sua maledizione. Nadia Toffa è morta a un'età nella quale alla morte neppure si dovrebbe pensare, non dovrebbe essere neanche in agenda e neppure nominata. Quarant'anni appena compiuti, un insulto. Era la conduttrice delle Iene su Italia Uno. Era partita come inviata del programma, ne è diventata il simbolo a colpi di servizi, polemiche, dibattiti. Il cancro l'ha divorata, quel cancro al cervello che è stato così spietato da lasciarle lucidità fin quasi all'ultimo. Lei, bresciana verace e sincera, ha fatto la «cronaca» della sua malattia per tanto tempo sui social e da un mese circa la sua voce si era affievolita, sparendo dalle tagline e dalle news dei siti. Sembrava una scelta strategica e difatti, con la perfidia tipica dei social network, qualcuno aveva pensato fosse una decisione presa a tavolino per aumentare la popolarità di questa biondina piena di energia che si era costruita da sola partendo dal nulla ed era diventata un simbolo non soltanto televisivo. Invece no.
Nadia Toffa, nata a Brescia il 10 giugno del 1979, si è spenta dopo qualche settimana di tormento finale, il calvario conclusivo di una vita sfortunata. Aveva debuttato in tv per la prima volta a Telesanterno, non certo un'emittente di grandi ascolti. Ma da lì si era costruita una credibilità inattaccabile perché, ebbene sì, se sei capace di stare «dietro» a una notizia vuol dire che hai l'istinto giusto. Lei lo aveva, anche se qualche volta l'istinto ti può fregare e rischi la figuraccia. A Retebrescia, un'altra tv non certo di prima fascia, aveva dimostrato che il talento non ha bisogno di share altissimi per mettersi in mostra. E difatti, dopo quattro anni, Nadia Toffa è diventata inviata de Le Iene, il programma tv che le assomigliava di più, quello che interpretava meglio la sua vocazione. Nadia non aveva i crismi della presentatrice, non era seduttiva, non aveva le mosse tipiche di chi è capace di affabulare il telespettatore. Era irruente, simpatica, verace. E per questo era diventata un simbolo della televisione più vera, quella alla Robin Hood che indaga sui misfatti per restituire la verità ai danneggiati.
Aveva fatto servizi sulle truffe di alcune farmacie ai danni del servizio sanitario nazionale (e fu processata per diffamazione), sulle slot machine, sullo smaltimento dei rifiuti in Campania per mano della criminalità organizzata, sull'aumento dei tumori nel «triangolo della morte» tra Napoli e Caserta. Insomma, una cronista che non guardava in faccia nessuno e faceva il proprio lavoro esattamente come si fa quando si è all'inizio della carriera, entusiasti e inattaccabili. Anche nello spirito, Nadia Toffa è rimasta una esordiente, una che non temeva condizionamenti e che non è cambiata neppure quando, dopo anni da inviata, è diventata addirittura conduttrice delle Iene. D'accordo, aveva vinto il premio internazionale Ischia Giornalismo e aveva fatto un programma tutto suo, l'Open Space di Italia 1 andato in onda per quattro puntate in prima serata. Ma Le Iene sono Le Iene.
Nel 2016, quando si è ritrovata a condurre con Pif e Geppi Cucciari il programma più investigativo e seguito di Italia 1, beh, ha dato un senso alla sua rincorsa. Nadia Toffa non era ambiziosa, non aveva le fregole di chi vuole apparire a tutti i costi. Era una cronista, un segugio che fiutava l'odore delle notizie e provava a seguirlo. Dal 16 ottobre aveva iniziato a condurre anche la puntata domenicale, quella più seguita, quella più preziosa in termini di ascolto e visibilità. Dopo inchieste e servizi molto commentati e discussi (anche nel mondo accademico come quello sull'esperimento nucleare nel laboratorio del Gran Sasso) c'è stato il caso irrisolvibile, quello purtroppo decisivo. Durante un servizio a Trieste si è sentita male. Era il 2 dicembre 2017. A febbraio rivela di avere un tumore. Con i tempi social, sembra un secolo fa, in realtà è l'altro ieri. Poi a Verissimo su Canale 5, stiamo parlando di otto mesi fa, ha annunciato che la maledizione era tornata e che avrebbe fatto di tutto per batterla, per sconfiggerla, per uscirne anche stavolta come se niente fosse.
Da allora, ha tenuto un diario su Twitter con ancora più attenzione. Le foto. Le battute. I commenti. Ogni sua uscita era tempestata di incoraggiamenti ma anche di insulti, in quel gioco perverso al quale la comunicazione digitale ci ha ormai abituato. Quando Nadia Toffa rivelava un passo avanti oppure una battuta d'arresto, c'erano bestie che le auguravano di morire o che addirittura gioivano delle sue sofferenze. Anche in questo, la parabola sfortunata di questa fuoriclasse è diventata un paradigma della comunicazione.
E oggi, quando ormai non c'è più nulla da fare, il suo sorriso rimane un esempio per chi affronta una malattia e vorrebbe avere la sua stessa forza e la caparbietà di chi affronta l'ultimo sentiero con la stessa forza che aveva iniziando il primo.
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