
Finalmente, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky potrebbe incontrarsi, faccia a faccia, con il nuovo zar Vladimir Putin. Se non salta tutto nelle prossime ore come pare molto più che possibile. E ancora meglio se giovedì a Istanbul ci sarà anche Donald Trump, diplomaticamente un elefante in un negozio di cristalleria, ma l'importante è che ucraini e russi comincino a parlare veramente per trovare una via d'uscita dalla devastante guerra nel cuore dell'Europa. Per farlo è necessario incontrarsi, negoziare, con chi ha le mani sporche di sangue del tuo popolo ed entrambi i presidenti in guerra pensano lo stesso uno dell'altro.
Il tentativo dei volenterosi europei di imporre una tregua preventiva dimostra che non conoscono minimamente i russi. Oppure pensano sia furbo esercitare questo tipo di pressione. Il Cremlino non accetterà mai di piegarsi alla richiesta dei «nemici» più irriducibili della Nato e di farlo prima dell'incontro dove ci sarà in gioco tutto.
Non illudiamoci, però, di arrivare ad una pace giusta, quella con la P maiuscola rispettosa del diritto internazionale e di altre belle parole del mondo dei sogni. Alla fine sarà già tanto se finalmente verrà accettata seriamente e rispettata una tregua di un mese. I turchi che ospiteranno i colloqui al vertice, spregiudicati quanto pragmatici, l'hanno detto chiaro tondo attraverso il loro ministro degli Esteri Hakan Fidan: esortiamo Russia e Ucraina ad incontrarsi «il prima possibile» e avviare un cessate il fuoco. «Siamo convinti che questa volta l'opportunità non andrà sprecata» è convinto il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. E lo stesso Zelensky ribadisce che questi colloqui «potrebbero contribuire a porre fine alla guerra».
Ovviamente sul tappeto c'è tanto altro, come il disgelo fra Mosca e Washington, ma a Istanbul, se non salterà tutto all'ultimo momento, è possibile compiere il primo passo di un doloroso negoziato. Non penso che sia possibile arrivare al di là di un congelamento del conflitto lungo le attuali linee del fronte, stile 38º parallelo nella penisola coreana. In prospettiva, nonostante la mutilazione territoriale (non più del 20% del territorio e neanche tutto il Donbass) sarà l'Ucraina a guadagnarci di più. Lo stesso è capitato in Estremo Oriente, dopo la tregua (una pace non è stata firmata ancora oggi), con la Corea del Sud diventata una tigre dell'Asia e quella del Nord ridotta ad uno stato retrogrado medieval-comunista. Le garanzie di sicurezza si troveranno con l'avallo americano ed europeo. L'Ucraina non ha bisogno di entrare nella Nato avendo la strada già spianata verso l'Unione europea. Non solo: un cessate il fuoco definitivo aprirà la strada alla rinascita della ricostruzione con l'Italia in prima fila.
L'incontro, il difficile negoziato, la tregua sempre più permanente faranno parte di un percorso in salita, zeppo di ostacoli e trabocchetti, ma bisogna aiutare le due parti, in qualsiasi maniera, con le buone o con le cattive, a trovare la via d'uscita. Tragicomiche risuonano le accuse delle opposizioni al governo Meloni per la posizione «irrilevante», soprattutto da parte di Giuseppe Conte mai brillato in politica estera se non per essersi genuflesso alla Cina sulla «Via della seta».
La pace, anche con la p minuscola, è doverosa per chi ho incontrato nel ferro e nel fuoco della prima linea dall'invasione russa ad oggi. I morituri del Donbass, che hanno difeso fino all'ultima goccia del loro sangue Sievierodonetsk, Popasna, Bakhmut, Avdivka e adesso Pokrovsk. I civili che vivono nelle cantine trasformate in rifugio e pure i giovani soldati russi che sembravano addormentati in trincea, ma avevano un rigagnolo di sangue che colava dalla bocca. Gli alpini, che da quelle parti hanno versato il loro sangue nella tragica ritirata di Russia conoscono bene cosa significa un conflitto.
E hanno voluto che sia la «speranza» il tema della 96ª adunata di questi giorni a Biella.La speranza per tutti è che il 2025 non diventi il quarto anno di guerra, ma il primo in cui le armi tacciano il più a lungo possibile.
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