«Conseguenze regionali incalcolabili». «L'incubo umanitario diventerebbe una catastrofe», «Israele commetterebbe un crimine di guerra», avverte l'Onu. L'annuncio di Benjamin Netanyahu - «le forze israeliane sono pronte a operare a Rafah» - non solo sta seminando il panico nella città nel sud della Striscia di Gaza, dove sono ammassati l'85% degli abitanti dell'enclave palestinese, 1.8 milioni di civili sfollati e in preda a fame e sete. Le parole del premier, combinate con il no alla controproposta di Hamas per una tregua che porti infine al ritiro di Israele dalla Striscia, terrorizzano le cancellerie regionali e quelle internazionali in prima linea per la de-escalation. Gli Usa avvertono: «L'offensiva senza programmazione sarebbe un disastro»; «non sosterremo l'offensiva a Rafah». La crisi umanitaria al confine con l'Egitto, combinata con un duro attacco sulla città a sud e le tensioni con le milizie filo-iraniane nell'area rischia di diventare esplosiva. Anche per questo, mentre una delegazione di Hamas guidata da Khalil Al-Hayya è arrivata dal Qatar al Cairo per nuove trattative (Israele avrebbe rifiutato invece di mandare propri rappresentanti), il re Abdullah di Giordania partirà per un tour diplomatico che lunedì lo vedrà negli Stati Uniti da Joe Biden e poi in Canada, Francia e Germania per «mobilitare il sostegno internazionale per un cessate il fuoco immediato». Blinken, che ha lasciato il Medioriente senza la tregua ma convinto «che ci sia ancora spazio per un accordo», lo ha detto chiaro: Israele non ha «la licenza per disumanizzare gli altri», dopo che «gli israeliani sono stati disumanizzati nel modo più orribile il 7 ottobre».
Il forte timore è che la situazione, già drammatica, possa precipitare se l'offensiva israeliana colpisse Rafah. Ieri i raid dell'Idf nell'area hanno ucciso 14 persone, in una zona dove le tendopoli arrivano ormai «fino ai cimiteri» e la gente non sa più dove scappare. Eppure è qui che il grande capo della Striscia Yahya Sinwar ancora si nasconderebbe, anche se di lui i mediatori di Egitto e Qatar pare abbiano perso i contatti una decina di giorni fa. È su Rafah che si gioca una partita militare e diplomatica decisiva. Un futuro ad alto rischio escalation, come conferma il fronte Libano, dove ieri un comandante di Hezbollah, Abbas Al-Debs, soprannominato Hajj Abdullah, è stato colpito da un drone israeliano e 3 soldati dell'Idf feriti dai missili dei miliziani.
Eppure una soluzione per evitare tutto ciò potrebbe esserci. Secondo sei alti funzionari israeliani citati da Nbc, Israele sarebbe disposto a concedere a Sinwar l'esilio pur di riavere tutti gli ostaggi. Il piano sarebbe in discussione da novembre e prevederebbe la «soluzione Arafat», un bis del via libera concesso al leader dell'Olp perché lasciasse Beirut per Tunisi nel'82. Finora il gruppo ha bocciato l'ipotesi. Ma per Israele sono sei i leader nell'enclave da cacciare, incluso Mohamed Deif, indicati ai negoziatori americani a Parigi pur di riavere i rapiti.
Secondo la tv Kan, i contatti persi con Sinwar, avrebbero portato Hamas a prendere decisioni senza il contributo del leader della Striscia nei giorni scorsi, anche se il suo via libera sarebbe necessario per un accordo. E Sinwar, ben più dei leader del gruppo protetti in Qatar, ha bisogno di una tregua. I terroristi, per ora, continuano a dominare a Rafah, dalla quale passano gli aiuti per i civili.
Per il ministro Eisenkot - ex capo di Stato maggiore che in questa guerra ha perso il figlio di 25 anni - quegli aiuti finiscono «al 60% in mano ad Hamas», a causa delle «tardive decisioni» del premier. La città non «è solo una pentola a pressione di disperazione», è il fulcro della battaglia cruciale, militare e diplomatica per Netanyahu, gli stragisti del 7 ottobre e i 136 rapiti ancora a Gaza.
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