T utti i telefonini squillano all'alba per 221 milioni e rotti di elettori: «Good morning Ameeeerica! Today is Election Day!». È festa. Non per un avvenimento della politica, ma una festa popolare come il Labor Day, o il giorno dei veterani e tante altre: Election Day è uno dei Natali americani che celebra feste a noi ignote, come il giorno del Ringraziamento (fra pochi giorni) o Halloween qualche settimana fa. Le tv, di buon mattino, hanno inventato un nuovo format per le interviste: la colazione in cucina con i pupi in braccio e la marmellata sui microfoni. L'intervistatrice è una brava ragazza della porta accanto che non disdegna cereali e uova strapazzate e mariti e mogli ciascuno con il pupo in braccio che fa il ruttino polemizzano sulle tasse e su giusto abbrustolimento del bacon. Qui quando si chiede chi è che porta i soldi a casa, si chiede chi è che compra il bacon. Si parla, sui giornali, di una ripresa della Clinton in Florida, ma le strade di Miami Beach non confermano. Trump ha sfondato una barriera invisibile che apre sulla quinta dimensione e da lì sarà impossibile tornare indietro, persino se The Donald perdesse. Infatti una nuova creatura politica è venuta al mondo: il trumpismo che ha attecchito molto vigorosamente su un popolo cangiante che ogni tanto deve essere ricompattato.
I bar sono in festa, il breakfast sui tavoli esterni e un tassista cubano cerca di fregarmi portandomi in un altro albergo e facendomi pagare il doppio. Animata discussione fra colleghi di lavoro, votano tutti per il ciuffo di Trump.
Alle 8, undici minuti e 32 secondi del mattino vengono chiuse i primi seggi elettorali con i loro segreti ancora nelle urne. La gente si è alzata presto e si accascia negli Starbucks con un bicchierone di caffè esotico da mezzo litro, rovente e amaro con una goccia di latte. Sempre più senti chiedere un «latte» che significa un caffellatte all'italiana e che è pronunciato «l'lde». Fox ci fa sbirciare nello stanzone del quartier generale di Trump silenzioso come una camera operatoria con una trentina di computer e relativi addetti. La Grande Mela è democratica e liberal fino alle midolla, di sinistra ma anche un monumento vivente al mondo degli affari e dagli scambi, idee incluse. C'è un tipo sulla 18ª, un grande bar liberty ubriaco fradicio ma anche palestrato oltre ogni limite muscolare. Per curiosità gli chiedo come la vede, questa elezione e lui risponde con un forte accento russo «I don't care» («non me ne frega niente»). Quando gli faccio la domanda più ovvia: è venuto dalla Russia?, risponde con voce torva: «No, I'am from the Soviet Union» . Sta qui dal 1991 ed è triste come uno dei Karamazov. Chi votare? «Trump is funny», («Trump è buffo»). Voterà Trump? Perché no. Qui molti hanno già votato per posta, prima che gli ultimi scandali facessero pendolare le loro scelte. Cambi Stato e trovi milioni di televisioni locali e radio che trasmettono più parole che musica. Ma il format vincente è quello di un parterre di bellissime donne fra i trenta e i quarantacinque, tutte splendide, tutte eleganti con un solo gioiello, cambiano solo i colori della pelle e il make up: una nera, una bionda, una bellezza cubana, una saggia del Midwest, una sensuale creatura delle Keys della Florida. E parlano disciplinatamente a turno, esprimono posizioni fra loro opposte, ma niente risse, siamo americani, siamo civili.
Boston ha le luci marine di sempre, colonne di aragoste avviate al loro triste destino nei ristoranti. La gente comincia ad affollarsi sotto i televisori anche se non è ancora arrivata l'ora dei numeri. Si macinano e rimacinano gli ultimi spot: «Pensate che cosa può diventare questo Paese diviso sotto una sola politica, un solo uomo a guidarla». L'uomo alla guida è ovviamente lui, The Donald che assume pose papali e rallenta il suo modo di parlare creando un'attesa spasmodica. Hillary emerge anche lei da ogni schermo e tutti la guardano, come anche Donald, dopo averla incorporata, assimilata, riprodotta nello stomaco e nella mente, una sorta di digestione del candidato.
Aria di festa e non di rissa, a Chicago la grande comunità nera sarebbe compatta dietro Hillary Clinton, anche se sono visibili le fughe dall'iniziale compattezza. I neri di Chicago costituiscono il 50% del problema afroamericano negli Usa. L'età media è sempre più bassa, la qualità scolastica decrescente, la disaffezione scolastica al massimo e i minori sono una fetta rilevante dell'intera popolazione americana. A loro Clinton ha promesso benessere, mentre Trump ha promesso strade sicure e la fine delle migliaia di omicidi nella comunità. L'aria nell'Election Day è comunque festosa, il tempo permette agli adolescenti neri di vestire con il loro gusto stravagante e ben stirato sempre più apprezzato dai coetanei bianchi. L'Ohio, la Virginia e l'Indiana, Stati chiave per la vittoria, appaiono benedetti dal sole e tutta l'America in festa è vestita con ricercata eleganza. La stessa eleganza che si può vedere nelle grandi feste popolari del Labor Day, quando folle si radunano per il più classico picnic.
Ieri c'era quest'aria di picnic in cui faticheresti ad indovinare fra tutti questi americani, che altro non sono se non puri americani di ogni colore e status, chi vota Trump e chi Clinton. La Nazione appare oggi molto più compatta nelle immagini e nell'espressione di quanto apparisse nei giorni scorsi. Eppure, ognuno pronuncia la stessa frase: We want to change, vogliamo cambiare.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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