Coronavirus

L'ultima cena dei nottambuli

Il tam tam parte lunedì sera, non appena si sparge la voce che da giovedì i nottambuli sono di nuovo di fatto agli arresti domiciliari

L'ultima cena dei nottambuli

Il tam tam parte lunedì sera, non appena si sparge la voce che da giovedì i nottambuli sono di nuovo di fatto agli arresti domiciliari: «Che si fa mercoledì sera?», e «Come passiamo l'ultimo giorno di libertà?». E: «Facciamo qualcosa di grosso, che si fottano».

Perché stavolta è diverso. Stavolta l'ultima notte di Pompei si può organizzare con un po' di anticipo. L'altra volta, il famoso 7 marzo, che era pure un sabato, nessuno sapeva che sarebbe stata l'ultimo momento di evasione prima di spiaggiarsi per due mesi sul sofà a inventarsi un nuovo armamentario di abitudini emergenziali per il padre di tutti i lockdown. Quindi nacque con il tempo un sentimento da reduci, di gente che rimpiangeva quell'ultima sera passata inconsapevolmente. E chiunque, a posteriori, avrebbe fatto qualcos'altro.

Stavolta invece è diverso: il governo e poi le regioni ci hanno dato qualche giorno di tempo per organizzare l'ultima sera da Cenerentole, che poi parte l'ultima zucca (ma un'ora prima). Una situazione inedita. Finora abbiamo conosciuto la libertà e la non-libertà, al netto delle mascherine e del distanziamento. Ora scopriremo invece la libertà condizionata. A tempo. Che per la gran parte degli scappati di casa - e io, lo confesso, appartengo a questa categoria - assomiglia più alla non-libertà che alla libertà. Perché a meno che tu non abbia due figli adolescenti e li porti da McDonald's alle 20, nessuno davvero può definire «fare serata» dover tornare a casa alle 23, che se poi non trovi parcheggio e sfori di qualche minuto c'è pure il rischio che ti fermano e ti fanno la multa. Ah no - ci informano - puoi sempre mostrare lo scontrino del ristorante, della pizzeria, del bar, e dimostrare che alle 22,47 hai pagato e te ne sei andato dal locale e sfuggire così alla contravvenzione. Ma alla tristezza di tutto questo no, non sfuggirai.

Ci sovviene che anni fa vedemmo a Parigi una mostra dell'artista Jacquelyn C. Black che per anni ha lavorato a scattar foto dell'ultimo pasto richiesto dai condannati all'esecuzione nei bracci della morte americane. Oggi ci sentiamo un po' così, anche se noi probabilmente sopravviveremo a tutto questo (e nemmeno è detto): quelli che possono pronunciare l'ultimo desiderio prima di scomparire nel nulla. Peraltro di quella mostra ci colpì l'assoluta banalità dei delivery estremi dei morituri: ostriche? Piccione? Champagne millesimato? Un goccio di Armagnac? Macché: hamburger, patate fritte, sandwich gonfi di salse dai colori inesplorati, polli fritti in confezioni grandi come una bagnarola, bevande gassatissime. Tanto, fanculo la dieta se stai per essere perlustrato da 220 volt. Morire da sani non è poi questa grande soddisfazione.

Così ci sentiamo noi, orfani della notte, a casa per Porta a Porta. Io andrò a cena in un ristorante con un'amica che mi ha anche sfottuto: «Mi tocca passare l'ultima sera con te». Un paio di millenni fa ci fu una famosa ultima cena. Ma allora erano in tredici.

Ora sarebbero divisi in due tavoli da sei con il resto di uno.

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